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 2024  febbraio 18 Domenica calendario

Intervista a Rino Formica. Parla di Nenni

Rino Formica, lei sta per compiere 97 anni. Come sta?
«Bene, anche se sono diventato cieco. Sa, sono sempre stato molto miope…».
In effetti già nelle foto dei primi anni 80, quando era il potente ministro delle Finanze, porta occhiali spessi.
«Fino a qualche tempo fa vedevo ancora dall’occhio destro, poi ho avuto un guaio alla retina. Grazie alle iniezioni ho retto ancora un poco. Ora non più».
Però è lucidissimo. L’ultimo grande vecchio della politica italiana. Un superstite. Qual è il segreto?
«Vita regolare, niente stravizi, evitare le abbuffate…».
È quello che dicono tutti. Qual è il segreto vero?
«L’interesse a pensare. Nella vita nulla accade per caso».
Nulla?
«Tutto ha una giustificazione. E la cosa più interessante è capirla. Sempre rispettando il pensiero degli altri, cercando di comprenderne le ragioni, anche le più sbagliate. Con un sano distacco dalle cose materiali. O meglio cercando l’equilibrio tra la materia e, se non lo spirito, la riflessione».
Qual è il suo primo ricordo?
«Il treno di ferragosto da Bari a Monopoli, per la festa dell’Assunta, la madonna della Madia».
La sua famiglia era religiosa?
«No. Papà Giuseppe era un ferroviere antifascista. Ma la gita a Monopoli era il nostro modo di consumare i biglietti premio che riceveva ogni anno. Il nostro grande viaggio».
E sua madre?
«Mamma Letizia era una d’Auria Filangeri, figlia di un magistrato napoletano».
Come mai sposò un ferroviere?
«L’amore non conosce pareti».
Aveva rotto con la famiglia?
«No, ma a Napoli tornavamo solo una volta ogni due anni. Non si viaggiava molto all’epoca. Si scrivevano lettere bellissime».
Che ricordo ha del fascismo?
«Oppressivo. Il Paese non era ancora unificato davvero: resisteva l’Italia degli staterelli, tutti parlavano dialetto. Imperava un pensiero solo, di una persona sola. E la politica senza pensiero o diventa sopruso, o diventa buffet. Il fascismo era sopruso. Oggi siamo al buffet».
Lei è l’uomo delle massime. La politica è davvero sangue e merda?
«Se vuole traduco. La politica è passione e contaminazione. La buona politica è far prevalere la passione sulla contaminazione, o se preferisce il sangue sulla merda».
Quando comincia per lei la politica?
«I cinque anni tra il 1943 e il 1948 furono formidabili. Tutto accadde allora: la caduta del Duce, la guerra civile, la liberazione, la Repubblica, la scelta atlantica».
Lei c’era.
«Dopo il 25 luglio partecipai alle riunioni per ricostruire a Bari il partito socialista. Ci trovavamo alla libreria Laterza. I vecchi partiti erano stati distrutti dal fascismo: il carcere, il confino, l’esilio. Bisognava ricominciare daccapo».
Chi eravate?
«I ferrovieri amici di mio padre, qualche professore antifascista. Avevo un insegnante di religione, fervente repubblicano, che sarebbe diventato arcivescovo di Bari, don Michele Mincuzzi. Mi parlò di un giovane poco più grande di me, dal sicuro avvenire, di cui era il padre spirituale. Si chiamava Aldo Moro».
Che ricordo ha di Moro?
«Aveva forti convinzioni; infatti poteva permettersi di essere flessibile. Ci ritrovammo a Palo del Colle per un comizio. Moro parlò da un palco con la bandiera monarchica. Gli chiesi: “Scusi, ma don Mincuzzi mi aveva detto che lei era repubblicano”. E lui: “Io sì; ma a Palo del Colle i cattolici sono tutti monarchici”».
Moro da adulto fece il centrosinistra con voi socialisti.
«Mi disse: prima lo faremo al Nord, poi al Sud. L’ultima città d’Italia ad avere una giunta di centrosinistra sarà Bari».
All’inizio del 1944 a Bari ci fu il grande congresso del Cln, il Comitato di liberazione nazionale.
«Avevo 17 anni, ero addetto alla vigilanza. La sinistra era molto attiva; meno i popolari e i moderati. Allora due delegati sardi, il socialista Corsi e il liberale Cocco Ortu…».
Uno dei pochi che si era opposto a Mussolini già nel 1922.
«Lui. Proposero di far cadere la pregiudiziale repubblicana e di accogliere nel Cln pure i monarchici. Due mesi dopo arrivò Togliatti da Mosca e si fece proprio così. Ma sul momento il povero Corsi venne processato e gli fu detto: vattene e fonda un partito socialista monarchico. Era già iniziata la nostra maledizione».
Le scissioni?
«Lo scissionismo plurale. Nessun partito si è scisso così tante volte. Tutte presentate come purificazioni per ricostruire l’unità dei migliori. Invece hanno frammentato il Psi; fino alla polverizzazione del 1992, quando nel momento più drammatico ognuno badò a se stesso e perdemmo tutto».
Nenni com’era?
«Da giovane era stato un ribelle. Un rivoluzionario che voleva rovesciare lo Stato».
Era amico di Mussolini.
«Sì, del Mussolini socialista; ma guai a parlargliene. Quando nel 1971 fu eletto Leone, noi cercavamo di portare al Quirinale Nenni. I capigruppo del Msi alla Camera e al Senato erano miei concittadini e amici: con De Marzio e Di Crollalanza eravamo insieme al consiglio comunale di Bari. Il primo mi disse che si era già impegnato con la Dc. Ma Di Crollalanza rispose: io sto con Nenni, perché il Duce prima di morire ci disse di far riferimento ai socialisti. Anche Niccolai, fascista di sinistra, me lo confermò. Lo riferii a Craxi, che era vicesegretario».
E lui?
«Mi disse: ti prego, non dirlo a Nenni. Soprattutto, non nominargli il Duce, che lo manda in bestia».
Craxi com’era?
«Io ho passato una vita con Craxi. Non è che posso così, in due parole…».
Craxi era onesto?
«Personalmente, sì. Con tutti i dirigenti politici di tutti i partiti aveva in comune una convinzione: la lotta politica ha bisogno dell’arma del denaro; e il denaro si prende dove c’è. Ma la sua storia di esule è una storia di povertà. Mentre si è poi scoperto che molti moralisti erano sul mercato. E pure a buon mercato».
Era stato lei però a dire del Psi: il convento è povero, ma i frati sono ricchi.
«L’errore fu decentrare la ricerca delle risorse. Tanti si sentirono liberi di procacciarsene per sé e per i propri cari».
Anche «nani e ballerine» è sua.
«Non volevo essere offensivo, ma dire che quel modo di allargare l’assemblea socialista alla società civile non rispondeva a ragioni politiche, bensì a ragioni pubblicitarie. Nani e ballerine accettarono in modo svagato. Infatti quando scoppiò Mani Pulite tutti i cooptati latitarono. Alcuni negarono proprio. Compreso Dematté, che divenne presidente della Rai».
Lei disse che Craxi aveva in mano «un poker d’assi». A cosa si riferiva?
«Alle informazioni che i servizi e la polizia avevano fornito ad Amato, che era presidente del Consiglio».
Quali informazioni? E come le avevano raccolte?
«Erano segnalazioni sul traffico telefonico dei componenti del pool».
I servizi spiavano i magistrati di Mani Pulite?
«I servizi hanno come compito controllare tutto quello che avviene attorno al potere. Anche Mussolini era intercettato, i servizi ascoltavano le sue conversazioni con la Petacci. Certo, il confine tra la tutela delle istituzioni e l’intrigo è sottile. Dipende dall’uso che se ne fa».
E cosa avevano scoperto i servizi?
«Che un po’ tutti i magistrati del pool non erano stinchi di santo. Non solo Di Pietro. Ognuno aveva il suo corrispondente esterno: politico, religioso, internazionale. E ognuno aveva la sua ambizione: chi voleva fare il presidente del Consiglio, chi il presidente della Repubblica…».
Chi voleva fare il presidente della Repubblica?
«Ovviamente, il capo del pool».
Borrelli? Non credo proprio.
«Quando un magistrato appare in tv e dà ordini al Parlamento, già agisce come un aspirante capo di Stato».
Anche lei andò a processo.
«E fui assolto con formula piena – insussistenza del fatto – su richiesta del pubblico ministero in aula; il che provò che i pm avevano costruito un processo politico sul nulla».
Di Berlinguer che ricordo ha?
«Aveva una visione religiosa della lotta politica, come atto di fede assoluta. E coltivava un’ostilità inestinguibile per il Psi, che per lui rappresentava suo padre».
Suo padre?
«Il padre di Berlinguer era socialista. E lui considerava la scelta paterna lenta, non decisiva, incapace di risolvere i problemi. Non era il solo. Pensi a quanti leader democristiani hanno avuto i figli comunisti – Moro, Taviani, Cossiga —se non terroristi, come Donat-Cattin».
E Almirante chi era?
«Un fascista che aveva capito di poter gestire la sconfitta, facendosi assorbire a poco a poco dal potere ufficiale».
Ora i suoi eredi sono al potere?
«Almirante ha trovato un erede viziato da viltà nei suoi confronti. La Meloni è arrivata al governo attraverso una mascheratura, e non ha la forza di dirsi la continuatrice di Almirante».
Come trova la Meloni?
«Fortunata, vista la collezione di errori dei suoi contendenti, in particolare quelli della sua area. E furba. Più furba che intelligente. Ma la furbizia in politica dura poco. Molto poco».
Dicono che la Meloni sia fortissima.
«Invece è debolissima. Perché incontrare un politico più intelligente o più colto di te è difficile; ma incontrarne uno più furbo è molto facile».
E Salvini?
«Una volta si parlava, con espressione un po’ razzista, di profondo Sud. Non vorrei apparire razzista; ma Salvini mi sembra un uomo del profondo Nord-Est».
Schlein o Conte?
«Conte è il populismo che si fa governo e appare più accettabile; ma sempre populismo è. Schlein è il radicalismo che si fa moderazione; ma non è piegandosi alla moderazione che la sinistra andrà al potere».
Perché?
«Perché gradualismo non significa rinuncia. Un leader deve capire quello che oggi la società non gli consente di fare; ma non deve diventare quello che vuole la società».
Renzi o Calenda?
«Sono cercatori d’oro nelle sabbie del fiume; ma nel fiume si trova al più qualche pesciolino. Non sarà un centro aristocratico, sdegnoso, dispettoso, a risolvere i problemi reali».
Di Berlusconi cosa pensa?
«L’ho visto solo due o tre volte, prima che scendesse in politica. È stato bravo ad allestire la zattera dei profughi della Prima Repubblica; ma ha portato al governo un macchiettismo che non poteva non degenerare. Berlusconi era un populista da salotto. Che ha allevato i populisti di strada».
Come vede il futuro dell’Italia?
«Legato alla politica estera. Sono convinto che stia per nascere un nuovo ordine mondiale. La grande crisi della globalizzazione ha provocato le guerre. Se vogliono evitare la terza guerra mondiale, le grandi potenze ora devono imporre una tregua generale di sei mesi, e sedersi a un tavolo per trasformarla in una pace duratura. Una nuova Yalta».
La Cina vuole la pace?
«La Cina deve sollevare un miliardo di persone dall’indigenza. Minaccia la guerra a Taiwan; ma la guerra non è nel suo interesse. Il problema è che al tavolo delle grandi potenze rischia di non sedere l’Europa. E la colpa è anche nostra, di noi italiani».
Perché?
«Perché le nostre classi dirigenti hanno perso la ragione, sono obnubilate dalle sirene populiste e antieuropee. Se alle prossime elezioni le forze europeiste italiane non batteranno un colpo, il Paese andrà incontro al disastro. L’unica speranza restano le classi dirigenti tedesche, francesi, spagnole, che hanno ben chiaro quanto l’unità europea sia necessaria per evitare ai singoli Paesi di soccombere e sparire. Per questo dico che la Meloni è debolissima».
Perché?
«Perché non ha il sostegno della prospettiva. Non propria; altrui. Non interpreta la vita futura delle generazioni che non si sono ancora espresse. I giovani mostrano un misto di disprezzo e distacco. Spero ancora che escano dai social e vadano a votare, che partecipino alla vita politica. Come facevano quei ferrovieri di Bari amici di mio padre».
La morte le fa paura?
«No, perché è parte della vita».
Crede nell’aldilà?
«La penso come Pajetta: abbiamo mandato parecchie delegazioni, ma nessuna è mai tornata indietro».
Non spera di rivedere i suoi cari?
«Sono cose che si sperano nei momenti di abbandono. Poi ascolti un buon disco, o leggi un buon libro, e l’abbandono passa».