Corriere della Sera, 18 febbraio 2024
Intervista a Milena Vukotic
Il cognome, prima di tutto: Vukotic.
«Origini montenegrine, anche se sono nata a Roma nel 1935. Lo sa che sono nipote di un Pope ortodosso? Uno che aveva due figli e quando uno di questi decise di darsi al teatro lo cacciò di casa. Poi, quando il ragazzo morì prematuramente per tubercolosi, il padre nemmeno si presentò ai funerali».
Lei, però, è stata figlia d’arte.
«Madre pianista e compositrice, padre diplomatico ma autore di testi teatrali. Papà conosceva Pirandello. Conservo una lettera in cui il drammaturgo gli dava il permesso di tradurre le sue opere e di allestirle nella ex Jugoslavia. A casa nostra arrivano scrittori e artisti. Ho cominciato a suonare il pianoforte da bambina».
Ma poi scoppiò la guerra.
«Eravamo a Londra, ricordo benissimo il cibo razionato. Il latte c’era sempre, la carne molto meno. Ricordo i lampi dei bombardamenti in cielo, i bunker. Poi mia madre riuscì a sistemarmi in una specie di scuola, dove c’era un pianoforte. Veniva a trovarmi per farmi suonare».
Prima ancora di compiere dieci anni lei aveva girato il mondo.
«La mia infanzia e l’adolescenza sono state un continuo spostamento da una città all’altra al seguito degli incarichi di papà. Parigi, Londra, Vienna, Istanbul, Roma. Parlo cinque lingue, oggi, a 88 anni, faccio un po’ fatica con il tedesco, ma lo parlo. Filo conduttore di quella continua e giovanile transumanza, il piano e la danza. Fu a Parigi che entrai in due tra le compagnie più prestigiose, quella di Roland Petit e quella del Grand Ballet du Marquis de Cuevas, per capirci la compagnia che accolse Nureyev dopo la sua defezione dall’Unione Sovietica. Le racconto di quando lo incontrai a Roma?»
Certo.
«Venne a danzare all’Opera assieme alla grande Nina Vyroubova. Dopo lo spettacolo, caricai entrambi sulla mia Cinquecento e andammo verso l’Isola Tiberina. Era molto tardi, ma Rudolf non voleva andare a dormire, era euforico, voleva ballare. Sull’isola non c’era quasi nessuno e allora lui raccolse un foglio di giornale, ne fece un cappello e danzò solo per noi fino alle prime luci dell’alba».
Perché lei smise di danzare?
«Perché prima mi innamorai del teatro e poi del cinema. Ero già una giovane donna, e pensi che andavo raramente al cinema, mi interessava solo il palcoscenico. Poi un giorno vidi La strada di Fellini. Fu una folgorazione».
Come conobbe Fellini?
«Ero da poco tornata in Italia, non conoscevo nessuno e avevo fatto solo teatro. Ci fu un signore, nemmeno ricordo chi, che mi scrisse una lettera di raccomandazione, ma quando mi trovai davanti a Federico non ci fu bisogno di mostrargliela. Mi mise una mano tra i capelli e capii che andava bene così. Quella lettera non gliel’ho mai fatta vedere».
Lei ha recitato in «Giulietta degli spiriti», dove c’erano le sue donne-simbolo, Giulietta Masina e Sandra Milo.
«Giulietta divenne subito mia amica, lei e Federico erano legatissimi. Di che cosa parlavamo noi tre? La sorprenderà: spesso parlavamo di crostate o di pasta e fagioli, erano tempi in cui la leggerezza era una forma di liberazione, non c’era bisogno di discutere sempre dei massimi sistemi. Giulietta aveva capito e apprezzava uno dei doni maggiori di Fellini: la libertà. Pensi che una volta un funzionario della MGM gli mise davanti un assegno in bianco. Federico, semplicemente, girò sui tacchi e se ne andò».
Esattamente sessant’anni fa, lei prendeva parte a una delle trasmissioni più importanti della tv italiana, «Il giornalino di Gian Burrasca», miniserie con Rita Pavone, per la regia nientemeno che di Lina Wertmüller.
«Io avevo lasciato le mie foto per il casting e poi ero volata a Belgrado perché non vedevo papà da anni. Appena arrivata in albergo, mi chiama Lina: “Senti Milena, tu sai cantare? Dai cantami qualcosa adesso”. “No, al telefono mai, casomai torno a Roma”. Ripartii subito col primo volo e andai negli studi Rai. Ad aspettarmi, con Lina, al pianoforte c’era Nino Rota».
Grandi nomi in televisione allora.
«Gli arrangiamenti erano di Bacalov, i costumi di un genio come Tosi. E accanto a noi c’erano Franca Valeri e Ave Ninchi che facevano “Nel mondo di Alice”».
Lei ha recitato con grandi registi, da Fellini a Monicelli a Lattuada a Tarkovskij.
«E pensare che quando ero agli esordi feci un provino con Renato Castellani, il quale mi disse: “Per fare cinema o devi essere bella come la Lollobrigida o carismatica come la Magnani. Tu non sei nessuna delle due cose”».
Però lei nel 1976 si è spogliata per «Playboy», immagini sensualissime.
«Le foto erano accompagnate anche da un testo di Alessandro Blasetti che rifletteva sulla femminilità. Mi dissi: perché no? L’ho fatto anche per dimostrare che noi donne sappiamo essere tante cose insieme, che le etichette non servono, che possiamo trasformarci con libertà».
In lei registri diversi sembrano amalgamarsi nel segno di un’eleganza naturale. Penso soltanto al fatto che nello stesso anno, il 1980, lei recitava ne «La terrazza» di Scola e in «Fantozzi contro tutti».
«Ero la nuova moglie di Ugo, perché Liù Bosisio se n’era andata. Non ne poteva più: dicono che una volta, mentre recitava Euripide a teatro, uno degli attori la chiamò Pina!».
Succede anche a lei?
«Ancora oggi, al mercato, mi chiamano Pina, ma va bene così, vuol dire che quel gigantesco affresco sociale che Paolo Villaggio ha costruito è davvero entrato nella pelle delle persone».
Carattere impossibile, Villaggio?
«Molto difficile, ma con me è sempre stato corretto. Con lui e sua moglie Maura siamo stati molto amici, una sera li invitai a cena a casa mia e vennero anche Federico e Giulietta. Fellini aveva detto che voleva il pesce persico al forno, io trovai solo le trote e allora a tavola cominciò una gag senza fine, con Fellini che chiedeva il caviale e Villaggio che voleva le ostriche».
Fu Villaggio a sceglierla nel ruolo di Pina?
«Sì, ci incontrammo in televisione e pochi giorni dopo la parte era mia. Paolo era coltissimo e agli occhi di tanti poteva sembrare anaffettivo, ma io, oggi, penso che non fosse così».
Un episodio che ce lo faccia capire?
«Quando morì mia madre eravamo quasi alla fine della lavorazione di un Fantozzi. Io dovevo interpretare un personaggio comico, ma dentro stavo malissimo. Paolo, durante una pausa, si avvicinò e mi disse: “Milena, so che è morta tua madre”. Mi aspettavo una frase di cordoglio, ma lui, senza nessun motivo apparente, si mise a parlare di Dostoevskij. Io capii che non era freddezza, la sua, ma un modo speciale di filtrare il dolore, di cristallizzarlo».
Vi siete frequentati fino alla fine?
«Ho un solo rimpianto: quando lui e Maura cambiarono casa, ci siamo scambiati qualche telefonata e, dalla voce, io sentivo che lui non era contento. Ma non siamo riusciti a vederci e allora mi dispiace di non essergli stata vicino quando lui era infelice».
Uno dei personaggi ai quali, su quel set, si è legata di più?
«Forse Filini, mi faceva tanto ridere. Mariangela, invece – cioè l’attore Plinio Fernando – mi telefona spesso ancora oggi che si è messo a fare lo scultore. Ne ha passate tante, poverino, ha perso presto entrambi i genitori».
Nel 1983 lei recita in due film che più diversi non si può: «Occhio, malocchio, prezzemolo e finocchio» e «Nostalghia» di Tarkovskij. Ma come si fa?
«Il mestiere dell’attore è più pragmatico e artigianale di quello che si pensi. Un grande regista un giorno mi disse: per fare cinema la cosa più importante è procurarsi una sedia. Perché si passa tanto tempo ad aspettare. Un costume, una scenografia, un altro ciak».
E ha recitato nei tre film più importanti di un maestro come Luis Buñuel. Come è arrivata la sua proposta?
«Molto semplicemente tramite il mio agente. Quando Buñuel mi chiamò, telefonai a Fellini per dirglielo, e Federico mi disse “Salutamelo. Ma lui adesso quanti anni ha?”. Incontrai don Luis e gli portai i saluti di Fellini. Lui mi disse “Ricambio. Ma lui adesso quanti anni ha?”. Due grandi maestri che mi hanno fatto la stessa domanda. Naturalmente nemmeno a Buñuel ho mai mostrato la lettera di presentazione, quelle lettere sono tutte rimaste nel mio cassetto».
Milena, lei ha fatto anche la moglie del Conte Mascetti, cioè Ugo Tognazzi, in «Amici miei» di Mario Monicelli. Secondo lei quella comicità così, diciamo, rude, oggi sarebbe ancora accettata?
«Lei pensa che siamo diventati troppo conformisti? Forse è vero, anche se a me sembra che la eccessiva ricerca di originalità stia rovinando il cinema, così come altre forme d’arte. Ugo Tognazzi era un attore brillante e intelligente, accettava ogni critica, pure per i suoi film, salvo che quelle che riguardavano i suoi piatti».
Come ha conosciuto suo marito, Alfredo Baldi?
«A una rassegna cinematografica in biblioteca, pensi lei. Lui scrive di cinema, ci siamo incontrati e piaciuti, non c’è molto da dire. Stiamo insieme da vent’anni, di certo ci siamo messi insieme che non eravamo più giovani».
Come sono gli amori tardivi?
«Indulgenti».
E come definirebbe oggi la felicità?«La soddisfazione momentanea per qualcosa di bello: un applauso, la visita di un amico, una telefonata affettuosa. In questi giorni sono in tournée con “Così è che vi pare” della compagnia di Geppy Gleijeses e, a Bologna, mi sono fermata a comprare dei tortellini. La signora della bottega si è offerta di portarmeli a casa e, insieme, mi ha regalato una torta di riso. È la bellezza del gratuito quello che oggi mi fa felice».