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 2024  febbraio 17 Sabato calendario

Un libro su Matteotti


Molto spesso, la successione casuale dei libri che ci capitano tra le mani è molto più illuminante di qualsiasi bibliografia ragionata. Mi è capitato di verificarlo proprio in questi giorni, leggendo uno straordinario romanzo di Jack London, Il Tallone di Ferro, pubblicato nel 1908, e subito dopo una novità fresca di stampa, Il nemico di Mussolini di Marzio Breda e Stefano Caretti (Solferino), che è un’avvincente biografia di Giacomo Matteotti, del quale quest’anno cade il centenario del sequestro e dell’assassinio. Il romanzo di London è la fosca profezia di una dittatura, una distopia del genere poi reso celebre da 1984 di George Orwell e da innumerevoli romanzi di fantascienza. Il libro di Breda e Caretti è invece fondato sulla più rigorosa e accertata documentazione storica. Ma tra l’eroe di London, Ernest Everhard, e il leader del Partito socialista unitario, rapito e barbaramente trucidato da una squadraccia di sicari di Mussolini, al di là delle differenze di pensiero esistono evidenti affinità psicologiche. E mi sembra difficile che il coltissimo Matteotti non abbia letto il romanzo di London, tradotto in tutto il mondo, che fu un’«opera di divulgazione dei dati basilari del socialismo», come l’ha definita Goffredo Fofi, di enorme impatto culturale, molto ammirata anche da Trotsky.
Tra il personaggio del romanzo americano e l’uomo politico italiano non ci sono tante analogie di pensiero: Everhard corrisponde al tipo del «massimalista», del sindacalista rivoluzionario, mentre Matteotti fu un intelligente e preparato riformista, molto rigoroso al momento di scegliere i suoi obiettivi e i metodi democratici necessari a conseguirli. Semmai, l’affinità profonda riguarda la purezza del carattere, animato da una fede capace di spregiare ogni pericolo, compreso quello della vita, volentieri sacrificata al bene comune. Nemmeno l’eterno freno del «tenere famiglia» può deviare il percorso di questi destini eroici, che ritengono che l’unica sicurezza che va garantita ai propri cari consiste nel farli vivere in un mondo più giusto e razionale, anziché adattarli all’ingiustizia e alla sopraffazione.
Personalmente, fin da quando ne ho sentito parlare a scuola, di antifascisti come Matteotti, o Piero Gobetti, o i fratelli Rosselli, mi ha sempre colpito un coraggio che sconfina in una specie di consapevole, calcolata incoscienza. E non parlo solo del coraggio delle idee, che è una cosa preziosa ma, per così dire, più universalmente accessibile. Si tratta della forma più arcaica e universale di coraggio, che è il coraggio fisico del singolo quando si oppone a una moltitudine di canaglie forti solo del loro numero, dei loro manganelli, dei loro demenziali vessilli.
Nel caso di Matteotti, come raccontano benissimo Breda e Caretti, il martirio iniziò ben prima del rapimento e dell’uccisione. Un’indole fondamentalmente vigliacca come quella di Benito Mussolini, sempre circondato dai suoi pretoriani, non avrebbe retto una settimana di quella vita. Matteotti, invece, sembrava capace di rialzarsi sempre in piedi, non mostrando nemmeno a chi gli era vicino la minima vergogna per quello che aveva subìto. Sapeva che non sempre, purtroppo, la pietra di Davide spacca la testa a Golia, ma attribuiva all’esempio un valore capace di trascendere ogni contingenza.
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Uno degli aspetti più lodevoli della biografia di Breda e Caretti è la capacità di ricostruire uno stile di pensiero che è anche, senza soluzione di continuità, uno stile di vita: integerrimo e laborioso, ma non privo di un certo senso dell’umorismo necessario a evitare la tentazione dello sconforto. La forza del carattere emerge via via che si rende impossibile esercitare ogni altro tipo di forza: e questo schema tragico finisce per suggerire un senso di solitudine e di predestinazione. Giova moltissimo al ritratto di Breda e Caretti l’uso di documenti di diversa natura: da una parte ci sono i discorsi, gli scritti politici e giuridici; dall’altra, largamente citate, le lettere a Velia, la moglie, che svolgono la funzione di un diario, di un controcanto intimo alla vita pubblica.
Bisogna anche ricordare che la vita di Matteotti fu quella di un uomo d’azione tanto quanto quella di un intellettuale, di un profondo conoscitore del diritto destinato, se solo avesse scelto una strada più tranquilla, a un’importante carriera accademica. In un mondo in cui l’oratoria di stampo dannunziano o futurista, intesa nel senso più vacuo e deteriore, sembra affermarsi a scapito di ogni concreta e significativa idea politica o sociale, colpisce soprattutto, nel giovane Matteotti, l’importanza attribuita all’indagine statistica, alla notizia esatta, allo scrupoloso controllo dei dati. Il tecnico e il politico coincidono nella stessa persona. Anche negli anni da parlamentare, una buona parte delle sue giornate Matteotti le passa in biblioteca, dove, si lamenta con Velia, non vede apparire molti colleghi.
Il deputato del Polesine fu un convinto riformista, molto rigoroso al momento di scegliere i suoi obiettivi e i metodi democratici necessari a conseguirli
Questo abito mentale, che potremmo anche definire positivista, è in grado di suscitare ancora oggi qualche ammirata riflessione. Un uomo politico in biblioteca non è un eccentrico o un pedante, ma qualcuno che aspira a una conoscenza di prima mano, fondata sull’esame spassionato dei dati, dei fenomeni sociali e politici che sono il presupposto del suo operato. Fin dagli anni giovanili, spesi nell’organizzazione delle amministrazioni locali del suo Polesine, Matteotti divenne celebre tra i suoi compagni per il rigore con cui affrontava ogni specie di pratica, comprese le più rigorose revisioni di conti.
Al polo diametralmente opposto a questo modello sta il leader politico inteso come oratore e suscitatore di entusiasmi, ignaro di tutto tranne che dell’arte di procurarsi consensi fondati sul nulla, in una specie di comunione mistica che non serve ad altro che a occultare la furbizia e la disonestà. Da ben prima dell’avvento del fascismo, Matteotti fu dolorosamente consapevole del prevalere dell’inganno oratorio sulla verità. «La folla preferisce innamorarsi dei Mussolini, perché trinciano l’aria col taglio più netto», commenta sconsolato già alla vigilia della Prima guerra mondiale, di fronte al cinico voltafaccia del futuro Duce, passato con l’abilità di un baro dal neutralismo all’interventismo. Si può ben comprendere come questo atteggiamento conduca a quel nobile isolamento che è l’appannaggio dei giusti non solo di fronte ai nemici dichiarati, ma anche a molti compagni di partito, tra i quali non mancano gli «impulsivi momentanei» e i «letterati della politica», sempre pronti ad affermare come «dogma assoluto» ciò che «dieci minuti dopo rinnegheranno». Con perfetta sintesi, degna di un classico latino, sarà un altro martire antifascista, Piero Gobetti, a riconoscere in Matteotti l’italiano ideale, che «non se la intende col vincitore» e «non si arrende alle allucinazioni collettive».
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Storia di eroe un dimenticato è il sottotitolo del libro di Breda e Caretti, e c’è solo da augurarsi che gli autori abbiano peccato in pessimismo. Di sicuro, non si sono dimenticati di Matteotti i suoi nemici, se l’ultima vandalizzazione del suo monumento risale all’estate scorsa, ben novantanove anni dopo l’omicidio. C’è poco da stupirsi, se nel tristemente celebre discorso del 3 gennaio del 1925 Mussolini fu costretto a esibirsi in quello che è forse il più infame dei suoi giochi di prestigio: da un lato le contingenze lo obbligano a discolparsi della brutale eliminazione dell’avversario; dall’altro, con perfida ambiguità, finisce per metterci la firma, chiudendo il caso.
A questa pagina così vergognosa della nostra storia avevano già assegnato, in tempi recenti, il giusto peso sia Antonio Scurati in M. Il figlio del secolo, sia Massimo Popolizio nello spettacolo teatrale che ha ricavato dal libro. E se il «discorso su Matteotti» segna, molto più della marcia su Roma, il vero atto di nascita del fascismo, ciò non si deve solo all’immediata soppressione delle residue libertà civili. Il fascismo fu un patto collettivo fondato su un omicidio, sul corpo orribilmente straziato di un rappresentante del popolo. E dunque, il cemento di quel patto non fu solo una comunanza di idee, una visione del mondo più o meno criticabile, ma una profonda, inconfessabile lesione morale, che ancora oggi fatica ed essere ben delineata.
«Non c’è alcun dilemma, alcun giallo irrisolto, nel dramma di Giacomo Matteotti», ci avvertono gli autori di questo libro. Semmai, quella che va messa in luce è una perdita d’innocenza i cui effetti sono stati molto più duraturi dello stesso fascismo: «Dall’impunità su quel delitto si produsse l’impunità su tanti delitti che sarebbero venuti dopo». Del resto, nessuno fu più chiaro e acuto di Leonardo Sciascia, che di delitti impuniti se ne intendeva: «Matteotti era stato considerato, tra gli oppositori del fascismo, il più implacabile non perché parlava in nome del socialismo ma perché parlava in nome del diritto. Del diritto penale».