Corriere della Sera, 17 febbraio 2024
In morte di Navalny
Ezio Mauro per Rep
La morte di un oppositore in un carcere di Stato è un atto d’accusa per il regime che lo ha imprigionato: e un rimprovero per il mondo libero che sapeva tutto, e non ha fatto nulla, aspettando soltanto — da spettatore — che ciò che era scritto nella logica inesorabile del potere finisse per compiersi nella realtà. Aleksej Navalny ha così compiuto il suo ultimo gesto di denuncia in solitudine, com’era costretto a fare dall’incarcerazione nel 2021, con un orizzonte prigioniero di trent’anni per l’accumulo di varie condanne. Ha trasformato la morte in una testimonianza estrema della sua irriducibilità nella difesa dei principi violati e dei diritti calpestati, e dell’accanimento del Cremlino nella persecuzione degli avversari, negando loro non soltanto la possibilità di partecipare alla contesa elettorale, ma addirittura lo spazio fisico, materiale, civile per agire, protestare, contestare: e infine vivere. La morte diventa politica, e svela le paure e i soprusi del potere.
Putin non poteva evidentemente permettere che Navalny si muovesse liberamente dentro la società russa, scavandosi un percorso di alternativa radicale al regime, anzi di alterità culturale, politica, addirittura antropologica. Un cittadino che va alle assemblee delle grandi aziende di Stato finite in mano agli oligarchi, e contesta i bilanci, le spese, la gestione. Poi crea il sito RosPil per indagare sugli appalti pubblici, rifare i conti e denunciare i “trucioli” di denaro pubblico che cadono come segatura durante i lavori, e finiscono nelle tasche private. Quindi fa della lotta alla corruzione la sua bandiera attirando attenzione, consenso, appoggio da un numero impressionante di persone, che segnalano casi sospetti, applaudono il disvelamento del malaffare, versano il loro contributo per sostenere l’azione di denuncia, documentata giorno per giorno sul web. Infine lo scontro inevitabile con il potere. Navalny organizza i primi meeting contro la corruzione davanti a una folla in gran parte di giovani, e rapidamente questi appuntamenti pubblici diventano comizi. «Io mi sono trovato a far politica quasi senza accorgermene», mi ha detto dieci anni fa nel suo ufficio volante a Mosca, al tavolo di un internet caffè dietro il Kolzò. Una radio chiede al campione della lotta contro i corrotti che cosa pensa di “Russia Unita”, il movimento politico di Putin. «Semplice — risponde lui — : è un partitodi ladri e di malfattori».
È il momento della frattura, insanabile. Il potere scioglie i comizi, ferma i militanti, arresta Navalny che vive in ufficio accanto alla borsa per il carcere, sempre pronta: entra ed esce di prigione, ma la polizia fatica a inseguirlo nella “quarta dimensione”, come la chiama lui, il mondo del web che moltiplica, ingigantisce e rilancia le sue denunce e le sue accuse. Ha inventato un nuovo metodo, ha cambiato il rapporto tra il suddito e lo Zar. Prima le critiche al potere venivano dal dissenso, testimonianza isolata e individuale di intellettuali che per le loro proteste, per gli scritti, per le denunce in Occidente finivano nel gulag dell’età staliniana, e poi nei lager sovietici. Vite spezzate, repressione, oppressione, purghe, omicidi di Stato, con la persecuzione che non finivamai, anche dopo la fine della carcerazione: salendo le scale della casa di Julij Daniel o di Roy Medvedev a Mosca ancora negli anni di Gorbaciov si incontravano gli uomini del Kgb sul pianerottolo, mentre l’automobile nera aspettava nel cortile, come un avvertimento permanente. Ma con Navalny il dissenso è diventato opposizione, è uscito dalla dimensione individuale, eroica ma testimoniale, ed è diventato un progetto politico con un movimento, un leader, una prospettiva (minoritaria, ma dirompente) di sfida elettorale a Putin.
Il regime non ha tollerato questo salto di qualità. Navalny è stato estromesso dalla corsa elettorale, la sua fondazione contro la corruzione (Fbk) è stata sciolta perché “estremista”: ma non bastava, bisognava cancellare la figura pubblica del grande oppositore. Nel 2020 il mondo ha assistito a una prova di annientamento finale, quando Navalny è stato avvelenato con il Novichok, l’agente nervino che ha causato la morte di figure di spicco della dissidenza. Sopravvissuto con le cure in Germania, Navalny ha deciso di tornare in Russia, dove è stato immediatamente arrestato, e condannato praticamente al carcere a vita. È l’ultimo stadio dell’opposizione, che quando non trova uno sbocco sceglie il sacrificio. Si può dire che tutta l’azione politica di Navalny a questo punto si raccoglie e si sublima nella testimonianza, nell’evidenza e nella potenza disarmata di un’accettazione al sopruso che non è resa e sottomissione, ma al contrario è pedagogia universale. Navalny si fa puro corpo, costretto dietro le sbarre, e quel corpo prigioniero si trasforma in strumento politico disperato e ostinato. In una parola il corpo dell’oppositore diventa scandalo.
In questo modo il condannato rivela la vera natura del regime. Nella teoria politica il potere che non riconosce i suoi limiti si chiama autoritarismo, se non tollera contropoteri concorrenti è totalitarismo: qui siamo, e la morte in cattività di Navalny è la conferma a cui non possiamo sfuggire, perché è un messaggio al Cremlino, al suo Paese, ma anche a noi. Restano le sue parole. «Non manifestate solidarietà a me ripetendo che siamo tornati ai tempi di Stalin. Concentratevi su un solo pensiero, davvero importante: cosa posso fare personalmente per resistere? Ricordate: non c’è vergogna nella scelta di resistere: ma ce n’è molta nel non fare nulla».
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Maurizio Molinari per Rep
Ad un mese dalle elezioni presidenziali russe destinate a celebrare e rinnovare l’indiscusso potere di Vladimir Putin, la morte dell’irriducibile oppositore Aleksej Navalny in una remota colonia penale artica è la sorpresa di febbraio che svela al mondo intero come lo zar del Cremlino abbia in realtà i piedi d’argilla.
Se infatti la prigionia di Navalny in Siberia, destinata a durare 30 anni, testimoniava per i russi l’impossibilità di sfidare Putin, così come avveniva per la deportazione dei dissidenti nei gulag siberiani ai tempi dell’Urss, ora la sua morte improvvisa solleva il dubbio che lo zar avesse in effetti paura di lui. Che Putin ne abbia ordinato l’uccisione o che Navalny sia stato assassinato da chi dentro lanomenklatura vuole spingere Putin verso uno scontro ancora più duro contro l’Occidente, il responsabile di questa morte è infatti il leader del Cremlino perché è stata sua la decisione di deportarlo in una delle prigioni più gelide del Pianeta al fine di isolarlo dai russi, fiaccarne la resistenza fisica e morale, e trasformarlo nel simbolo dell’intoccabilità del suo potere.
Da quando Navalny è stato aggredito dagli agenti del Cremlino gettando il veleno Novichok sui suoi vestiti, su un aereo russo nell’agosto del 2020, è diventato chiaro al mondo intero che Putin lo considerava una seria minaccia. Il motivo è l’identità di Navalny: un cittadino russo come tanti altri ma impegnato a documentare e denunciare con ogni mezzo — dai droni ai social network — sprechi, corruzione e frodi di Putin e della sua cerchia di potere. Un quarantenne nazionalista che amava il suo Paese ed accusava il Cremlino di sfruttarlo per diventare più ricco e potente a scapito di milioni di altri connazionali. Ovvero, portatore di un messaggio potente e rivoluzionario perché veniva dal basso, dal cuore della Grande Madre Russia, imputando a Putin di averla tradita a proprio uso e consumo come, prima di lui, avevano fatto i Romanov, Stalin e altri leader sovietici.
Da qui la volontà di Putin di piegarne la resistenza, dimostrarne a tutti la sudditanza totale, come anche la scelta opposta di Navalny di sfidarlo a viso aperto, scegliendo di tornare in Russia — dopo essere stato salvato in Germania dall’avvelenamento del suo sangue — per dimostrare ai russi che non aveva paura di lui. Davanti a Putin, che regna da 24 anni imponendo la paura, Navalny era un russo comune che non aveva paura.
E ciò è stato vero fino all’ultimo perché, pur dall’isolamento siberiano, Navalny era riuscito a far conoscere il suo sostegno per la campagna politica che punta al cuore del sistema di potere di Putin: costruita attorno alla militanza anti-guerra da parte di uomini e donne, giovani ed anziani, che da San Pietroburgo a Vladivostok semplicemente non vogliono morire per Kieve rifiutano la scelta di aver precipitato la Russia in un conflitto infinito con l’unico obiettivo di resuscitare un impero sovietico per cui le nuove generazioni non hanno alcuna nostalgia, preferendo invece vivere in maniera assai simile ai coetanei di Londra, Parigi, New York e Berlino. Da qui l’ipotesi che forse non è un caso la coincidenza fra la decisione di Mosca di impedire — l’8 febbraio — la candidatura presidenziale di Boris Nadezhdin, candidato apertamente anti-guerra, e la morte di Navalny avvenuta solo otto giorni dopo. Se Nadezhdin era lo sconosciuto per il quale migliaia di russi si mettevano in fila a dispetto di gelo e neve per sostenere la sua sfida di opporsi al conflitto in Ucraina, Navalny era l’avversario più conosciuto determinato a trasformare la stessa opposizione in un movimento di popolo con cui, in qualche maniera, Putin avrebbe dovuto fare i conti. Per un presidente russo alla ricerca di una rielezione conpercentuali talmente vistose — forse oltre l’80 per cento — capaci di trasmettere in ogni angolo del mondo l’immagine della sua invincibilità, lo scenario di un Paese palcoscenico del rifiuto della guerra da lui voluta è l’incubo da allontanare in ogni modo. E ad ogni prezzo.
Ma ora che Nadezhdin è stato squalificato e Navalny eliminato, il potere di Putin anziché apparire più forte, destinato a superare ogni orizzonte di tempo, si mostra invece in tutta la sua vulnerabilità. Riproponendo la debolezza che distingue ogni dittatura: se Xi Jinping ha avuto paura della “rivolta degli ombrelli” ad Hong Kong, se gli ayatollah di Teheran perseguitano le donne che si tolgono l’hijab, se i taleban afghani impediscono alle ragazze di studiare, se Bashar Assad ha usato i gas contro i civili di Damasco e se Kim Jong-un obbliga i nordcoreani a osannarlo è perché sotto qualsiasi latitudine la minaccia più temibile per il dispotismo viene dalla incontenibile volontà dei cittadini di essere liberi e non sottomessi. Una volontà che Navalny ha incarnato per i russi e che ora continuerà a inseguire ovunque Putin
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Marco Imarisio per il Corriere (17.2)
Arrivano alla spicciolata e si mettono in coda. Almeno per una volta, i poliziotti delle Forze speciali che presidiano la piazza della Lubjanka, è come se non ci fossero. I moscoviti depongono fiori, qualche lumino, ai piedi della Pietra Solovetskij, giunta fin qui dal primo Gulag della storia dell’Urss. Era la primavera del 1990, quando quel masso divenne il monumento alle vittime della repressione sovietica. Quello dei moscoviti e degli abitanti di altre grandi città russe che hanno fatto lo stesso, quando la Polizia non lo ha impedito, è un gesto politico.
Perché rappresenta l’eredità che Aleksei Navalny lascia dietro di sé. Era nato nel 1976, figlio di un tecnico militare e di una funzionaria di Stato, cresciuto in una guarnigione sperduta tra le campagne fuori dalla capitale. L’anagrafe ha la sua importanza. È stato il prodotto delle speranze tradite degli anni Novanta. Lui, infatti, si è sempre rivolto a quella generazione, rappresentata da sua figlia Dasha, che ha trascorso almeno la parte adulta della sua vita con Vladimir Putin. A chi al massimo aveva un vago ricordo dell’epoca sovietica, e non vagheggiava un ritorno alla potenza perduta.
All’inizio è il ragazzo della porta accanto, dal sorriso e del curriculum occidentali. Si laurea in legge all’Università dell’Amicizia fra i Popoli, il più internazionale degli atenei sovietici. Proprio gli studi a Yale quale membro del «Greenberg World Fellows», un programma creato nel 2002 per il quale venivano selezionati su scala mondiale potenziali «leader globali», gli varranno in patria una prima incriminazione come agente straniero e presso alcuni media dello stesso Occidente il sospetto di esserlo davvero.
A quel tempo, è già iscritto al partito di ispirazione liberale Yabloko, dove la sua dichiarata trasversalità è mal tollerata. Si dichiara apolitico, né di destra né di sinistra, disponibile a stare con chiunque purché contro Putin. L’importante è erodere il potere dal basso, consumarlo in ogni modo. La richiesta di autorizzare nel nome della convivenza pacifica la Marcia russa, una manifestazione dai contenuti xenofobi, gli vale la scomunica da parte dei liberali. Si mette in proprio. Risalgono al biennio 2006-2008 i video che lo ritraggono mentre balla tra manifesti di terroristi ceceni e immagini di armi da guerra. Insieme alla sua benedizione all’intervento russo in Georgia, verranno usati dal Cremlino per sussurrare all’esterno una accusa di nazionalismo che convincerà persino Amnesty International a privarlo dello status di prigioniero di coscienza.
Sono peccati di gioventù e di un personaggio ancora in cerca d’autore, dai quali rinsavisce ben presto. Il suo presunto supporto all’annessione della Crimea avvenuta nel 2014 è invece legato a una sola frase, «non si tratta di un panino al prosciutto che prima si prende e poi si restituisce», che era risposta di realpolitik alla domanda di un intervistatore se fosse possibile restituire quella penisola all’Ucraina.
Le accuse
Il tentativo di ridurlo a macchietta nazionalista rivelava il timore da parte delle autorità
Il tentativo di ridurlo a macchietta nazionalista rivela un certo timore da parte delle autorità. Navalny dimostra fin da subito di essere un pericolo reale. Alle elezioni parlamentari del 2011, quando la sua carriera di nemico pubblico numero uno del Cremlino era appena agli inizi, aveva infatti impedito a Russia Unita, il partito putiniano, di arrivare all’agognato cinquanta per cento. Alle manifestazioni del 2012 contro la staffetta presidenziale tra Dmitry Medvedev e Putin, incita i passanti a unirsi ai cortei: «Non rimanete fermi come dei mufloni». Pubblica video con slogan capaci di «bucare», come il celebre «Putin nonno nel bunker», che al tempo stesso si fa beffe dello spirito imperialista dello zar e denota la sua assenza di timore nei confronti di un avversario molto più forte di lui.
La sua unica arma è un iPhone, che usa come nessun altro prima d’ora. I suoi video di denuncia accumulano milioni di viste. Navalny intuisce che il grimaldello capace di aprire le porte dell’indignazione di un Paese assopito ma povero, sono la ricchezza e la corruzione degli uomini che lo governano. Comincia la stagione delle grandi inchieste condotte dal suo gruppo, composto rigorosamente da under 30.
Nessuno più di lui riuscirà a far male al sistema di potere putiniano, incrinandone l’immagine. Commette il sacrilegio di mostrare il palazzo segreto di Putin a Sochi, ne irride il proprietario facendo portare in manifestazione migliaia di scopini del water comprati al discount, che evocano quelli placcati oro scovati nella residenza presidenziale. Lo zar ha capito da tempo di essere al cospetto della sua nemesi, capace di parlare all’unica fascia di pubblico a lui interdetta. I giovani, i russi del futuro. La legge ad personam del 2019 che proibisce la candidatura alle persone che hanno risieduto all’estero, è quasi una certificazione.
Intanto, dal 2011 al 2018, Navalny ha già ricevuto dieci condanne per i reati più disparati. L’ultimo capitolo di questa ennesima tragedia russa è di pubblico dominio. L’avvelenamento, l’agonia, la scelta di tornare in Russia, il carcere. Nonostante l’esilio in Siberia, Navalny era molto più presente di tanti presunti oppositori a piede libero. La sua strategia del «tutti tranne Putin» per elezioni presidenziali del prossimo 15-17 marzo stava nuovamente mettendo in difficoltà il Cremlino.
Faceva ancora paura. «Sono sulla parte più nera della lista nera» diceva di sé stesso. Aleksei Navalny ha combattuto una lotta impari, ben sapendo quale sarebbe stata l’inevitabile conclusione. Così muore un eroe russo. Così vivrà il suo esempio.
Aldo Cazzullo per il Corriere (17.2)
Ora tenteranno di infangarlo, già lo stanno facendo, la disinformazione russa è molto organizzata e articolata. Diranno che era uno sciovinista, mica un santo. Un estremista, un matto, che aveva pure lui i suoi scheletri nell’armadio, in fondo li hanno tutti, no? Ma non lasciatevi ingannare.
Aleksei Anatolevich Navalny è un eroe. Da eroe ha vissuto, e da eroe è morto. In tanti dicono di essere pronti a morire per la patria; e fin qui è retorica. Ma quando si muore davvero, nelle carceri siberiane del tiranno, non è retorica; è carne e sangue. In tanti tengono gli oppositori in galera, al mondo ci sono più dittature che democrazie. Ma pochi dittatori combattono guerre d’aggressione come quelle scatenate da Putin in Georgia e in Crimea, pochi hanno massacrato sistematicamente interi popoli come ha fatto Putin con i ceceni. Ma i ceceni sono musulmani, e la Georgia è lontana. Poi Putin ha aggredito l’Ucraina, ai confini dell’Europa, imprimendo una drammatica escalation a un confitto che esisteva già. Di Navalny diceva: «Se l’avessi fatto avvelenare io, sarebbe morto». Ora è stato accontentato.
Intendiamoci: Navalny era un nazionalista russo. Non era un liberale, tanto meno un uomo di sinistra. Era un patriota che, a differenza del criminale di guerra Putin, voleva il bene del suo Paese, per cui ha messo in gioco il suo patrimonio, i suoi cari, la sua stessa vita.
Navalny aveva passato oltre un anno agli arresti domiciliari. È stato avvelenato, è finito in coma, ha rischiato di morire. La Germania l’ha accolto. Ma Navalny non voleva vivere in esilio; tanto meno diventare una pedina dello scontro tra Putin e Angela Merkel. Navalny voleva combattere e, se necessario, morire in patria. Così è tornato a Mosca, dove sapeva che l’avrebbero atteso le manette e la cella per chissà quanto tempo, dimostrando un coraggio anche fisico d’altre epoche, degno di un eroe risorgimentale. Garibaldi però era al suo tempo l’uomo più famoso del mondo. Purtroppo non possiamo dire lo stesso di Navalny. Il suo arresto, la persecuzione dei suoi collaboratori — tutti in esilio o in galera —, la brutale repressione dei manifestanti scesi in piazza a sua difesa non hanno suscitato nell’opinione pubblica globale l’emozione che meriterebbero.
Poi, certo, molte idee di Navalny erano discutibili, come emerse dall’intervista a Paolo Valentino sul Corriere, otto anni fa. Nei suoi occhi Enzo Bettiza aveva intravisto quel «lampo di follia» che secondo lui balenava «nello sguardo dei russi bianchi». Ma Navalny non è del tutto isolato. L’ultima volta che poté presentarsi alle elezioni, quando nel 2013 si candidò sindaco di Mosca, raccolse il 27%. Le sue denunce sulla corruzione del regime sono state confermate dai fatti.
Di solito le dittature cadono quando perdono le guerre. Sconfiggere la Russia è molto difficile, probabilmente impossibile. Un negoziato andrà aperto, un compromesso andrà trovato. Ma non si può chiudere questa guerra senza trovare una soluzione duratura che garantisca la sicurezza delle frontiere orientali dell’Europa. È un errore fatale non capire che se Putin vince tutti noi perdiamo, se il dittatore avrà campo aperto ognuno di noi è in pericolo. Se capiremo questo, il sacrificio di Navalny non sarà stato vano; per il suo popolo, e per il mondo.
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Fabrizio Dragosei per il Corriere (17.2)
Aleksei Navalny è morto ieri durante l’ora d’aria nel carcere di Kharp, nella Siberia del Nord, probabilmente per un ictus provocato da un’embolia arteriosa. Questo almeno secondo le notizie ufficiali che filtrano dalla colonia penale IK-3 (conosciuta da tutti come «Lupo polare») dove il blogger che era diventato il principale oppositore di Putin era arrivato a Natale.
Ma i suoi collaboratori, i familiari e buona parte dell’opinione pubblica internazionale hanno pochi dubbi. Qualcuno pensa addirittura che sia stato assassinato mentre la maggior parte ritiene che comunque Navalny sia deceduto per tutto quello che gli è stato fatto. Prima l’avvelenamento col Novichok, una sostanza nervina; poi il carcere con privazioni che a noi appaiono inimmaginabili. Condannato a 19 anni (ma sul suo capo pendevano altre accuse), era finito dentro nel gennaio del 2021. In totale aveva passato ben 300 giorni in cella d’isolamento per quelle che i suoi denunciano come mancanze ridicole o accuse pretestuose. «Il detenuto non aveva allacciato l’ultimo bottone della giubba», 15 giorni in isolamento. «Navalny ha insultato il tenente Nejmovich chiamandolo così anziché usare il nome e il patronimico», 15 giorni. «Il prigioniero ha pulito male il cortile», 15 giorni. In queste celle speciali il letto viene alzato e bloccato contro il muro al mattino e per tutto il giorno i reclusi non possono stare né sdraiati né seduti. Il cibo fornito era «pessimo e scarso», ha raccontato la sua portavoce Kira Yarmysh.
Da un anno e mezzo non gli era stato consentito di incontrare o parlare per telefono con la moglie e i due figli. I tre avvocati, che incontrava con una certa regolarità, sono stati a loro volta accusati di estremismo. Due sono in galera e uno è fuggito all’estero.
Una situazione per la quale la moglie Yulia, parlando a Monaco, ha chiamato in causa direttamente il presidente: «Questo regime e Vladimir Putin hanno personalmente la responsabilità di tutte le cose terribili che hanno fatto al nostro Paese, alla mia famiglia e a mio marito».
Fino ai primi di dicembre Navalny era stato in una colonia penale a Vladimir, a 200 chilometri da Mosca. Poi il trasferimento nel Grande Nord, dove in questo periodo le temperature scendono anche a 40 gradi sottozero.
Prima della partenza, si era già sentito male in cella ed era caduto a terra. Subito erano accorsi i sanitari che avevano riaperto il letto e gli avevano messo una flebo al braccio.
La versione
Si è sentito male nell’«ora d’aria» (a temperature artiche) Inutile la rianimazione
A Kharp, Navalny ha raccontato tramite gli avvocati che gli era consentito di «passeggiare» da solo in quella che lui aveva definito «un’altra cella». In ogni caso, sempre perché le cose non fossero troppo comode per questo detenuto del tutto particolare, la sua ora d’aria iniziava alle 6.30 del mattino, con temperature artiche.
Secondo il racconto ufficiale, l’ex blogger si trovava «a passeggio» (cioè, nell’ora d’aria) quando si è sentito improvvisamente male. Questo sarebbe avvenuto però alle 13 locali in contraddizione con la routine del carcere, secondo il canale Telegram Baza. Tentativo di rianimazione, poi dall’ospedale di Labytnangi, distante 34 chilometri, sono arrivati altri medici («in sette minuti», secondo quello che sarebbe un comunicato ufficiale delle autorità locali) che hanno proseguito il massaggio cardiaco per mezz’ora.
Putin è stato subito informato dell’accaduto, ma non ha detto nulla. Il suo portavoce se l’è presa con tutti i leader occidentali per le loro reazioni «inaccettabili», visto che ancora non si sa cosa sia accaduto esattamente.
E negli ambienti vicini al Cremlino si fa notare come questa morte che arriva a un mese dalle elezioni presidenziali sia un bel grattacapo per Putin che contava su una riconferma noiosa (senza avversari veri) ma tranquilla. In tante città sono stati deposti dei fiori. E la procura ha subito avvisato tutti che manifestazioni sarebbero contro la legge.
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Massimo Gramellini per il Cds (17.2)
Continuo a domandarmi chi abbia ucciso Navalny. La risposta più logica è che sia stata la Cia, con l’avallo della Nato e di Giuliano Ferrara, per mettere in cattiva luce Putin, ma prima di formularla preferisco attendere conferme da una fonte indipendente come la dottoressa Basile o il professor Orsini. Non escludo che lo stesso Navalny ci abbia messo lo zampino: da uno che già una volta si era scolato una tazza di veleno a stomaco vuoto c’è da aspettarsi di tutto. I medici russi parlano di cause naturali, il classico malore che può capitare a chiunque commetta l’imprudenza di passeggiare in una colonia penale dell’Artico senza maglietta della salute, dopo avere trascorso trecento giorni in cella di isolamento per seri problemi a relazionarsi con gli altri.È comprensibile lo sconforto del Cremlino nei confronti della reazione «rabbiosa e inaccettabile» dell’Occidente, reo di avere tratto «conclusioni già pronte». Adesso sta a vedere che l’oppositore di Putin fatto incarcerare da Putin è morto per ordine di Putin o a causa delle condizioni estreme in cui era costretto a vivere da Putin. Ma in che modo ragiona certa gente? Non sanno che Navalny, semisconosciuto in patria, non era un pericolo per il presidente russo, come si affannano a ricordarci gli esperti veramente esperti e veramente liberi? Certe maldicenze vanno fermate sul nascere, altrimenti di questo passo si finirà con l’attribuire a Putin persino l’invasione dell’Ucraina.
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Giuseppe Sarcina per il Corriere
Monaco La reazione dei leader occidentali è corale e durissima. La notizia della morte di Aleksei Navalny suscita un’ondata di indignazione, di rabbia contro Putin, come non si vedeva dal 24 febbraio 2022, il giorno dell’aggressione all’Ucraina.
A tarda sera, Joe Biden tira le somme così: «Non sono sorpreso, ma sono furioso. Non ci sono dubbi che Putin e i delinquenti di cui si circonda siano i responsabili della morte di Navalny». Il presidente degli Stati Uniti, parlando dalla Casa Bianca, dice di essere ammirato per il coraggio del dissidente russo: «Un uomo che poteva fuggire all’estero, ma che ha voluto tornare in Russia». L’attacco a Putin, invece, è aspro: un leader che «infligge dolore non solo in Ucraina, ma anche al suo popolo». Biden sostiene che l’ennesima prova della «brutalità» di Putin deve spingere a reagire. Il Congresso americano deve approvare al più presto il pacchetto di aiuti da 60 miliardi di dollari destinati a Kiev: «Il mondo ci guarda, non possiamo far mancare il nostro sostegno all’Ucraina. Il momento è decisivo». Il presidente Usa manda anche un altro messaggio a Mosca: «Non si facciano illusioni, difenderemo ogni centimetro del territorio Nato». Da Washington a Monaco, dove nel pomeriggio Kamala Harris, dopo aver chiamato in causa la responsabilità di Putin per la morte di Navalny, ha avvertito «gli europei»: «Qui non è in gioco solo la libertà dell’Ucraina. Se non viene fermato, Putin attaccherà l’intera Europa». La vicepresidente Usa è intervenuta alla Conferenza sulla sicurezza, cominciata ieri nella città tedesca. In platea, mescolata tra Capi di stato, ministri e manager, c’è Yulia Borisovna, 47 anni, la moglie di Navalny, con cui ha condiviso le battaglie contro il Cremlino. Sale anche lei sul palco, anche lei accusa direttamente il leader russo e poi si rivolge «alla comunità internazionale»: «Uniamoci per combattere questo orrendo regime».
Sempre da Monaco, il segretario generale dell’Onu António Guterres chiede, attraverso un portavoce, l’apertura di un’inchiesta «piena, credibile e trasparente». Anche il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, dice che «Mosca dovrà rispondere a domande molto serie».
Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky non ha dubbi: «Navalny è stato ucciso e Putin dovrà rispondere dei suoi crimini». Più o meno dello stesso tenore il post del premier polacco, Donald Tusk: «Aleksei, non ti dimenticheremo mai e non li perdoneremo mai». Drastico il presidente della Lettonia, Edgars Rinkevics: «Navalny è stato crudelmente assassinato dal Cremlino».
Le dichiarazioni si affollano: sale la tensione con Mosca. Il presidente francese Emmanuel Macron scrive su X (ex Twitter): «Nella Russia di oggi si rinchiudono gli spiriti liberi nel gulag e li si condanna a morte. Rabbia e indignazione».
È uno stato d’animo condiviso dai vertici dell’Unione europea. La presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen osserva: «Putin teme il dissenso del suo stesso popolo. Quello che è accaduto oggi è un triste promemoria: ecco che cos’è il regime di Putin. Uniamoci nella lotta per salvaguardare la libertà e la sicurezza di tutti coloro che osano opporsi all’autocrazia». Josep Borrell, Alto rappresentante Ue per la politica estera e la sicurezza, aggiunge: «Il coraggioso Navalny ha dedicato la sua vita per salvare l’onore della Russia, dando speranza ai democratici e alla società civile. In attesa di ulteriori informazioni, sia chiaro: questa è responsabilità esclusiva di Putin». Il «coraggio di Navalny» ritorna anche nelle parole del cancelliere tedesco Olaf Scholz e del premier britannico Rishi Sunak.
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Paolo Valentino per il Corriere (17.2)
«Al Cremlino c’è gente che vorrebbe mettermi dentro e buttare via la chiave o peggio. Ma Putin è più razionale. E sa che non ha bisogno di prigionieri politici famosi. Almeno per ora», mi disse Aleksei Navalny nel 2016, quando andai a intervistarlo nel suo ufficio di Mosca. Dove la vera, agghiacciante profezia stava in quel «almeno per ora».
Ieri Vladimir Putin si è liberato per sempre dell’uomo che incarnava la sua nemesi. Ha ordinato esplicitamente il suo assassinio? O ha lasciato che Navalny si spegnesse lentamente, ucciso dalle spaventose condizioni della sua prigionia sopra il Circolo Polare Artico: freddo, isolamento totale, cibo poco nutriente e schifoso, cure mediche approssimative o inesistenti? Comunque sia andata, era chiaro che prima o poi sarebbe successo: Navalny doveva morire.
Ed è un segnale inquietante di cosa passa in questo momento nella testa dello zar, a un mese dalle elezioni