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 2024  febbraio 17 Sabato calendario

“SE SONO ATTORE È GRAZIE A MAMMA. MI DISSE: 'VAI FREGNONE, CHE UN GIORNO MI RINGRAZIERAI'” – CARLO VERDONE RACCONTA IL SUO RAPPORTO CON LA MADRE (“PREPARAVA IL RISOTTO A FELLINI, SI TRAVESTIVA DA ELEONORA DUSE MA SOFFRIVA DI ATTACCHI DI PANICO, CHE HO EREDITATO”) E RICORDA UN TERRIBILE SCHERZO CHE FECE DA PICCOLO SIMULANDO UN FURTO IN CASA – “PAPA’ MI RINCORSE AGITANDO LA CINTA DEI PANTALONI”. UNA SCENA SIMILE A QUELLA CON MARIO BREGA IN “BOROTALCO”: “CO LA CINTA NO” - VIDEO

I ricordi sono l’unica certezza che abbiamo vissuto e il soggiorno di Carlo Verdone è pieno di fotografie degli affetti dei suoi cari (ce n’è anche una del tennista russo Medvedev, divenuto suo amico).

Carlo, chi è la donna più importante della sua vita? «È stata mia madre. Rossana Schiavina, sposata in Verdone, figlia del direttore dei Monopoli dei tabacchi, famiglia socialista, suo padre, mio nonno Aldo, era amico di Nenni. Ha amato immensamente mio padre, Mario, studioso e saggista di cinema e assistente di Norberto Bobbio all’università, lontano da lei, solare, spiritosa, emotiva.

Papà veniva da una famiglia poverissima; orfano di guerra, sua madre faceva i rammendi per le suore. Si conobbero tramite Cesare Brandi, il critico d’arte. Da sposati i nonni materni gli diedero una stanza nella loro casa in Lungotevere Vallati, dove sono nato (in sala da pranzo, da una levatrice con un cappello a falde larghe che sembrava Mafalda di Savoia) e cresciuto».

(...) Era tosta ma con delle fragilità. Soffrì di attacchi di panico, che ereditai. Cominciarono nel 1978, dopo il debutto in tv con No Stop, e la gente mi riconosceva per strada. Facevo ridere ma non mi ritenevo adeguato per il mondo dello spettacolo».

La vostra casa divenne un cenacolo. «Un salotto dove passò tutta l’intellighenzia. Fellini andava pazzo per il risotto, Leonard Bernstein di cui ho la foto mentre Gianna, la mia ex moglie, lo imbocca e lui, come sempre, ha il whiskey in una mano e la sigaretta nell’altra. Ricordo Zeffirelli, Ettore Scola, Bussotti, il direttore Urbini, il violinista Milstein, quel genio di Benedetti Michelangeli che quasi viveva con l’accordatore di pianoforte e interruppe i suoi silenzi per dirci di accordare il nostro. Vittorio De Sica a fine pasto era solito masticare una foglia di pianta cedrina dal terrazzo. Poi c’erano i migliori chirurghi italiani, era il mestiere del fratello di mamma».

Scene di vita quotidiana? «Bombardavo la casa di dischi rock. Mamma diceva: ma come fai a sentire questa musica? Una volta alla settimana la accompagnavo a saldare le spese, ricordo un negoziante ebreo pieno di tic. Mamma mi stimolava a osservare, da lì sono nati i miei personaggi. Andavamo al cimitero, lei sapeva le storie delle famiglie con le tombe vicino a quella dei suoi genitori».

L’avrà fatta arrabbiare quella santa... «Feci uno scherzo terribile. Annacquai la conserva come fosse sangue, aprii i cassetti, rovesciai il tavolino. Misi la casa sottosopra simulando un furto. Quando i miei tornando dall’Opera aprirono la porta ebbero quasi un mancamento. Ci fu un silenzio catatonico. Uscii fuori e urlai: “È uno scherzo”. Papà mi rincorse agitando la cinta dei pantaloni».

(...) Una casa animatissima. «Il clou era a Carnevale. Mamma metteva su il teatro di burattini e il corridoio diventava una platea con due file. Organizzava feste mascherate, lei travestita da Eleonora Duse e il pianista Sergio Cafaro da Gabriele D’Annunzio». Lei aveva delle fisime da bambino? «Il buio era un problema. Mamma mi comprò un lumino dalla luce calda, arancione, con cui riuscivo a prendere sonno. Sotto Natale preparava il presepe nella mia stanza e mi addormentavo con le lucine dei re Magi. Mamma era protettiva con noi figli».

Quando vi lasciò? «A 59 anni, nel 1984. Morì di una orribile malattia nevralgica che comincia con l’insonnia e poi diventa depressione. Piangeva spesso. I medici la presero per depressione ma era la sindrome di Richardson, Steele e Olszewski. Le fu diagnostica in Francia, in Italia non avevano capito nulla. Innesca un decadimento lento e inesorabile del corpo, fino a quando non si riesce a stare in piedi e si fatica ad aprire le palpebre. Ha sofferto per quattro anni, e noi con lei. Papà era distrutto, avrebbe voluto morire».

E dopo? «Non vedevamo l’ora che finisse di soffrire. Papà non parlava più. Ma riuscii subito a reagire, mi dissi che dovevo ricordarla com’era prima della malattia. La sera del funerale a cena cominciammo a ridere degli episodi più lieti, lasciandoci alle spalle il calvario di quei quattro anni. 

(...) Sua madre fece in tempo a vedere i suoi successi? «Vide i miei due primi film. Venne sul set di Un sacco bello. Girai Acqua e sapone in condizioni psicologiche tragiche. La mattina giravo e il pomeriggio andavo a trovarla in clinica. Ebbe un ruolo fondamentale per il mio debutto teatrale, all’Alberichino».

Cioè? «Nel 1977 debuttai con Tali e quali. All’epoca andava il teatro off, Carmelo Bene, Memé Perlini. Mi venne un attacco di panico, volevo far saltare lo spettacolo. Mamma prese la borsa con gli oggetti dei miei personaggi, e me la mise in mano, mi diede le chiavi della macchina, mi spinse verso la porta e disse: vai fregnone, che un giorno mi ringrazierai. Mi prese per un orecchio come si fa con i bambini che non vogliono andare a scuola. Fu un grande successo».

Il suo racconto è proustiano. C’è un odore che la riporta a sua madre? «Sì, il profumo Roger & Gallet. Quando voglio ricordarmi di lei, apro la boccetta e mi appare la scenografia della sua camera da letto, che era inebriata da quella fragranza. E quasi quasi, ancora oggi, mi sembra di rivederla».