Corriere della Sera, 16 febbraio 2024
il nostro pigro fatalismo
Il 2024, super anno elettorale con consultazioni che riguardano mezzo mondo, è iniziato con uno stop alle pretese della più potente autocrazia: lo scorso 13 gennaio, Taiwan ha votato a nuovo presidente il candidato inviso a Pechino, nonostante le minacce del Partito comunista cinese. La situazione nell’isola resta tesa ma il dato di fatto è che le prime elezioni importanti dell’anno non sono andate come il gigante illiberale asiatico voleva.
In Ucraina, la situazione continua a essere drammatica, anche a causa della fiacchezza della democrazia americana a continuare negli aiuti e di quella europea a rifornire gli ucraini delle armi di cui hanno bisogno. Si dimentica, però, che la Russia sta perdendo la battaglia del Mar Nero, dove Kiev ha aperto un corridoio di transito che Mosca non riesce a chiudere: l’attività dei porti di Odessa, Pivdennyi e Chornomorsk è quasi tornata ai livelli precedenti l’invasione. Se l’inerzia politica non impedisse ai governi degli Stati Uniti e dell’Europa di cogliere fino in fondo l’urgenza della situazione, le prospettive di una vittoria ucraina nel fermare l’aggressione russa sarebbero migliori.
Le aree calde
Dal conflitto tra Russia e Ucraina alla situazione drammatica in Medio Oriente fino a Taiwan
L’uscita dalla guerra nel Medio Oriente è molto complicata. Ma la possibilità che dalla tragedia nasca un equilibrio più stabile non è irrealistica. L’obiettivo di Stati Uniti, Qatar, Egitto e di parte della politica israeliana di raggiungere una tregua umanitaria è un primo passo per un obiettivo più rilevante. Nel corso della pausa dei combattimenti a Gaza, Israele potrebbe, nonostante e oltre Benjamin Netanyahu, muoversi nella direzione del congelamento degli insediamenti in Cisgiordania e accettare di discutere della soluzione dei due Stati, in cambio del riconoscimento diplomatico da parte dell’Arabia Saudita di Muhammad bin Salman. Il tutto sotto la protezione e la pressione di Washington. Israele continuerebbe per un certo periodo a garantirsi la difesa dalle minacce provenienti dalla striscia di Gaza, fino a quando non sarà chiaro il destino di quel che resta di Hamas, a quel punto annullata politicamente oltre che decimata militarmente. Lo sconfitto effettivo in Medio Oriente sarebbe l’Iran degli ayatollah, più isolato. Come nel 2016, siamo in un’era in cui l’impensabile può materializzarsi. Se le democrazie ci credono.
Un percorso di pace e di nuovi equilibri in Medio Oriente, certamente difficilissimo, avrebbe effetti rilevanti a livello globale. Sarebbe la testimonianza che gli Stati Uniti, i quali cercano di disegnare il piano di pace, sono ancora l’unica potenza in grado di influenzare la regione e di non fare esplodere un conflitto. Ridarebbe fiducia nella possibilità di fermare gli aggressori che puntano a scardinare l’ordine mondiale basato sul diritto internazionale, a cominciare dalla Russia, che in Ucraina sarebbe meno sicura di sé. E spegnerebbe un po’ gli ardori delle altre autocrazie. Darebbe ai Paesi del cosiddetto Sud Globale modo di considerare quali sono le forze che favoriscono la stabilità che aiuta lo sviluppo. E probabilmente ridurrebbe le chance di successo di Trump – che prospera nel caos – alle presidenziali di novembre.
Non è affatto detto che tutto ciò accada, nemmeno in parte. È l’idea fatalista che molto sia già scritto e perduto – diffusa in una parte degli intellettuali e degli analisti, oltre che tra i fan dei dittatori – a rendere più probabile che il peggio vinca. La pigrizia dei «chierici» occidentali e dei loro governi rischia di essere la quinta colonna degli autocrati e dei terroristi. Non è la prima volta che accade. «Le cose cadono a pezzi; il centro non può tenere – scrisse dopo la Prima guerra mondiale, W.B. Yeats – Anarchia pura è senza briglie per il mondo, la marea scura di sangue è liberata, e ovunque la cerimonia dell’innocenza è annegata; i migliori mancano di ogni convinzione mentre i peggiori sono pieni di fervente energia». Quei peggiori sono oggi i Putin, gli Xi Jinping, gli ayatollah, i loro sodali: convinti dell’abulia e della «mancanza di convinzione» delle democrazie. Possiamo ancora deluderli.