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 2024  febbraio 16 Venerdì calendario

Intervista a Vittorio Emanuele Parsi


Vittorio Emanuele Parsi, il 27 dicembre mentre parlava sul palco a Cortina ha accusato un forte dolore al petto. Poche ore dopo era in sala operatoria, un’operazione in extremis per salvarle la vita. È stato in coma per giorni, in tantissimi sono rimasti col fiato sospeso. Ora come sta?
«In questo momento sono a Roma, a casa, con Tiziana Panella (giornalista di La7), la mia compagna, quindi molto meglio rispetto all’ospedale. Sono molto stanco. Però se penso a quindici giorni fa: solo scendere dal letto mi chiedeva una tale forza di volontà...».
Cosa ricorda di quella sera?
«Ho sentito tre colpi sul diaframma, come fossi in apnea. Da sommozzatore sai che quando li senti devi riemergere, è l’ultimo avvertimento. Ho capito che c’era qualcosa di grave. Finita la conferenza, ho chiesto che si chiamasse un medico. È arrivata l’ambulanza, siamo andati all’ospedale “Codivilla”».
Si pensava ad un infarto.
«La cosa ha preso tutta la notte, fino al mattino. La struttura decisamente non era attrezzata. Io stesso, dopo i primi esami negativi, stavo per dire: “vi saluto, devo partire per le vacanze”. Avevo un aereo il giorno dopo: sarei morto. Invece sono stato portato a Belluno in ambulanza, e lì ho avuto la fortuna di trovare il primario di Cardiologia, Alessandro de Leo che ha subito capito che la mia era una dissezione dell’aorta».
Una patologia gravissima. Era cosciente?
«Sì. Mi ha detto due cose, che ricorderò sempre. La prima: dobbiamo farle un’operazione salvavita. La seconda: può andare male. Ho potuto fare due telefonate».
Chi ha chiamato?
«Mia figlia maggiore e Tiziana, con cui sto da due anni, cercando di rassicurarla, mentre lei cercava di rassicurare me. Mi hanno portato con l’elicottero a Treviso, dove ho trovato chirurghi di eccellenza, come Francesco Battaglia, Antonio Pantaleo e Giuseppe Minniti».
Un’operazione complessa. È rimasto a rischio per giorni.
«Ricordo tutto il periodo in coma. Uno Stige, un fiume melmoso, nero, che stava sotto i miei piedi, come Ulisse e Achille. Ricordo di avere visto le radici degli alberi da sotto, come fossi in un crepaccio. E di tanto in tanto, voci lontane».
Cosa sentiva?
«Non dolore ma stanchezza fisica, una immensa spossatezza. A un certo punto mi sono chiesto se fossi morto. Ho pensato: non ce la faccio, forse basta lasciarsi andare e tutto passerà. La morte non potrà essere tanto peggio».
Stava andandosene...
«Poi ho pensato alle mie figlie e a Tiziana. Ho visto il suo volto, volevo rivederlo. È chiaro che non volevo lasciare sole neanche le mie figlie, ma in qualche modo prima o poi i figli li lascerai. Ho parlato con mia madre e con mio padre, che non ci sono più: “Datemi una mano voi, non è il momento di raggiungervi”. È stato allora che ho materializzato nella mente quegli omini di gomma che vendevano nei ruggenti anni ’70 e ’80, che si lanciavano sul vetro e si appiccicavano e salivano e scendevano... Ecco, ho visto me stesso un po’ come uno di quegli omini, a risalire l’immenso crepaccio, con tutta la fatica del mondo. E quando poi sono arrivato in cima ho aperto gli occhi. E ho visto Tiziana che era lì con me».
E cosa ha provato?
«Ho pianto».
È stata un’esperienza di premorte, come la chiamano?
«Penso fosse l’Ade. Il fiume in cui stanno le anime morte. Non ho visto nessuna luce, nessuna speranza che non fosse quella di lottare per vivere. Forse quando si muore la sensazione è quella di un abbraccio. La morte la viviamo come spaventosa, io non ne ho mai avuto grande simpatia, non nutro aspettative su quello che verrà dopo. Però la cosa che mi ha sorpreso è che non provavo paura».
L’incontro
In coma ho parlato con i miei genitori, che non ci sono più. Ho detto loro: «Datemi una mano voi, non è il momento di raggiungervi»
Non ci si prepara.
«Scherzando con Tiziana dicevo sempre: dov’è l’incudine?».
L’incudine?
«Sono un cultore di Willy il Coyote, quello che dava la caccia a Beep Beep. Quando Willy cadeva l’incudine era sempre più leggera. Ne veniva fuori, e ricominciava la sua caccia a Beep Beep. Ho pensato: eccola, questa è l’incudine. Avevo sempre ritenuto che potesse riguardare le persone che amo, mai me. Mi ricordo di aver pensato: caspita, se questa volta la sfango, devo fare più attenzione».
In che senso?
«Godermi di più la vita. Sono sempre stato molto frenetico, al limite del parossismo, ero abituato che il tempo esiste per essere occupato, che le idee ti vengono in treno, in aereo, parlando con la gente. I momenti felici, invece, vanno centellinati».
Come è stato il risveglio?
«Terribile. Sentivo i medici che dicevano: “Lo estubiamo domani, lo estubiamo oggi...”. Avrei voluto che lo facessero subito. Ho cercato di strapparmi tutto, hanno dovuto legarmi al letto. Nelle ore finali, intubato, guardavo l’orologio, vedevo passare i quarti d’ora uno per uno. Uno strazio. Quando mi hanno tolto i tubi è stato come rinascere. Avevo una sete tremenda: gli addetti della rianimazione usavano un bellissimo lavabo d’acciaio con una profusione d’acqua e mi dicevo: tra poco mi attacco sotto alla manichetta, mi dovranno portare via. Invece mi strozzavo anche solo con un cucchiaino».
Si impara qualcosa sugli altri, in una situazione così?
«Ricordo quando l’infermiere mi ha lavato la prima volta, con una spugna. Mi sembrava come nell’Iliade, quando lavano il corpo del morto. Mi ha colpito l’estremo rispetto per una persona che in quel momento dipende completamente dagli altri. È una sensazione che un adulto sano, con una vita attiva, non sperimenta. Mi ha confortato nell’idea che gli esseri umani sono naturalmente empatici. In fondo è quello che fa la democrazia, un sistema gentile: aiuta a esercitare l’empatia».
Diceva di Tiziana. Che rapporto avete?
«Lei ha un soprannome che le ho dato, che dipende da vicende non fortunate che l’hanno riguardata. È “cerottino”. Ero convinto di essere io quello forte. E invece devo dire che la sua forza è emersa a darmi una grande serenità».
E il resto del mondo che le sta intorno?
«Mi ha stupito la solidarietà di così tanti. I mondi che ho attraversato in questa vita, l’Accademia, i colleghi, gli studenti, la Marina, il rugby: forse sono riuscito ad attraversarli non come un ospite o un corsaro».
Come cambierà la sua vita ora?
«Non sarà quella di prima. Ma voglio andare avanti a fare il mio mestiere, scrivere, riflettere, impegnarmi in quella che chiamiamo la terza missione».
Cioè?
«Partecipare al dibattito pubblico. Non è una questione di vanità, ci sono delle battaglie in cui credo. Oggi viviamo una sindrome da anni ’30. Di fronte a un nemico alle porte che è già in guerra con noi e la prospettiva che torni Trump, isolazionista e gaglioffo, non sembriamo in grado di trarre le logiche conseguenze. Ovvero che abbiamo dieci mesi di tempo per metterci in condizione di esercitare se necessario da soli la deterrenza verso Putin, che ha mostrato una spietatezza e una crudeltà senza fine. Per altro, vai a dire a uno che vive sotto il suo tallone che l’Italia è una colonia americana; dillo a un ucraino, ti dirà che cos’è una colonia russa. Non posso astenermi. Anche se per partecipare a tutto questo primo devi vivere, poi filosofare. Nel senso non rinunciatario: se sei morto non filosofi».
Vero.
Il fiume nero
Ricordo di avere visto le radici degli alberi da sotto, come fossi in un crepaccio. E voci lontane Ma la morte non mi faceva paura
«Anche se leggendo i giornali che parlavano di me in quei giorni mi sentivo molto Mark Twain, che leggeva i necrologi quando avevano pubblicato la notizia falsa della sua morte. “Guarda che cose belle scrivono di me, e non sono ancora morto”».