La Stampa, 16 febbraio 2024
Da Troisi alla Carrà, da Gaber a Dario Argento i documentari raccontano la storia d’Italia pop
Per spiegare la ragione che permette la sopravvivenza degli abitanti della capitale Roberto D’Agostino, presentando Roma santa e dannata, firmato con Marco Giusti, aveva chiamato in causa il pensiero debole, «unico antidoto alla vita». Quel pensiero, in realtà fortissimo, inventato e descritto da Gianni Vattimo, informa una nuova, fluviale, produzione di documentari italiani, centrati sugli idoli di una cultura pop che parla di noi molto di più di quanto non lo facciano storie serie e riflessioni alte. La musica è il protagonista principale, ma ci sono tanti altri personaggi, raccontati con la cura un tempo, riservata solo a storici, letterati, politici, pittori da museo. Così, oggi, i registi di successo, dopo anni di opere di finzione, concentrano lo sguardo sugli italiani veri, quelli che hanno modellato i gusti del Paese. Con Laggiù qualcuno mi ama, dedicato a Massimo Troisi, Mario Martone ha già guadagnato il Nastro d’Argento dell’anno e ora è in corsa per i David di Donatello, membro di una pattuglia di quindici titoli in cui svettano stelle del costume made in Italy: «Ho voluto descrivere Massimo – ha spiegato Martone – come se fosse un pittore del 400».
E se di tracce bisogna parlare, di eredità che hanno segnato generazioni, allora è chiarissima anche la scelta di Riccardo Milani, regista di campioni d’incassi come Benvenuto Presidente, che, in Io, noi e Gaber, ripercorre, nel ventennale della scomparsa, la carriera di un autore prodigioso, capace, rifiutando le ideologie, di indicare al suo pubblico la strada di una coscienza politica coerente, lontana mille miglia da ogni sigla di partito. Il regista del Portaborse Daniele Luchetti mette da parte per un po’ il cinema di finzione e si dedica a Raffa, docuserie nel nome di Carrà, celebrata come simbolo ante litteram, negli Anni 70, di libertà e parità fra i sessi, poi divenuta regina della tv di Stato, e infine icona LGBTQ nel cuore dei 90: «Di Raffaella – dice – ci si può solo innamorare, arrendendosi senza riserve alla sua grazi energetica… è stata un’innovatrice che ha cambiato spesso identità, senza mai tradire i propri desideri».
Da tempo i conduttori delle rivoluzioni più sentite portano nomi da palcoscenico e da platee piene di battimani. Per i Nastri d’Argento ai documentari (la consegna dei premi è il 26) gareggiano, tra gli altri, Enzo Jannacci Vengo anch’io di Giorgio Verdelli, popolato di super ospiti, da Vasco Rossi a Diego Abatantuono, Zucchero – Sugar Fornaciari di Valentina Zanella e Giangiacomo De Stefano, con il protagonista in vena di confessioni da psicanalisi, Dallamerica Caruso. Il concerto perduto con l’autore Walter Veltroni sulle tracce della leggenda che avvolge la nascita del brano Caruso, legata a uno scampato naufragio nel golfo di Napoli, Fela, il mio Dio Vivente dedicato da Daniele Vicari al genio musicale Fela Kuti e all’impatto che ebbe sulla Roma incandescente di fine Anni 70. Gli esemplari di cinema che nutre sé stesso sono un’altra moltitudine, in cui spiccano titoli come Profondo Argento di Steve Della Casa e Giancarlo Rolandi, mosaico che ricompone, con inedite tessere provenienti dall’archivio personale dell’autore, il profilo del maestro dell’horror mondiale, e come Lui era Trinità di Dario Marani sulla carriera di Italo Zingarelli, produttore della saga di Bud Spencer e Terence Hill cui si deve la nascita del filone «fagioli western».
In Roma santa e dannata, regia di Daniele Ciprì, produttore creativo Paolo Sorrentino, (selezionato sia per i Nastri che per i David e stasera su Rai 2) star del grande schermo come Carlo Verdone, Enrico Vanzina e la scomparsa Sandra Milo si trasformano in narratori d’eccezione, interrogati da Giusti e D’Agostino nell’arco di una navigazione notturna sul Tevere, illuminata dai bagliori di una città eterna fantastica e indecifrabile : «Risolvere l’enigma di Roma è impossibile – dice D’Agostino -, abbiamo solo provato umilmente a descriverla, il nostro è stato un atto di arroganza e presunzione, qui può succedere di tutto, ognuno può vivere il suo quarto d’ora di follia o di celebrità». Eccessi, notti esagerate, carriere politiche fulminee e velleità poetiche precipitate rivivono in quella che Fellini aveva definito «un immenso cimitero brulicante di vita». Chi vive a Roma, fanno notare Dago e Giusti, deve necessariamente apprendere la regola del disincanto: «Qui c’è il Pantheon, che è molto più vivo di noi. Lui resta, noi, invece, siamo di passaggio». —