La Stampa, 16 febbraio 2024
Il manifesto di Draghi
Sembra quasi che Mario Draghi giochi in casa nella Ballroom del Capitol Hilton, nel cuore di Washington, con la Casa Bianca a poche centinaia di metri. Quando riceve il Paul. A. Volcker Award dalle mani della presidente del Nabe (National Association for Business Economics) Ellen Zentner, l’applauso delle 600 persone presenti in sala è convinto e fragoroso.
Alla fine del discorso dell’ex premier e dopo i 20 minuti di botta e risposta con Zentner ascoltati in religioso silenzio, l’applauso diventa quasi un’ovazione. Ci sono molti studenti – alcuni ragazzi sono venuti apposta dalla Pennsylvania per ascoltarlo, «siamo curiosi, vogliamo sapere cosa pensa della ricostruzione dell’Ucraina», confessano prima di sentirlo – e a loro Draghi, lasciata la sala, stringe le mani e sorride prima di correre via accompagnato dall’ambasciatrice italiana a Washington, Mariangela Zappia.
Draghi spazia su vari temi, tenendo il filo conduttore del ruolo dell’Europa in un contesto economico e geopolitico mutato, dove le politiche fiscali comuni devono garantire investimenti e sostenere un deficit alto, «dovremmo abituarci», per avere una crescita – in linea con le esigenze climatiche – in cui anche lo sviluppo «dell’intelligenza artificiale può aiutare».
Nota l’impossibilità di un’esistenza al di fuori di un palcoscenico comune europeo «per piccoli Stati che non possono da soli far fronte al cambiamento climatico, alla loro sicurezza, ai vaccini» e mette l’accento sulla necessità dell’Europa di essere in grado «di coordinare le spese per la sicurezza per evitare duplicati e sprechi» in una cornice in cui «politica estera e difesa comune».
La complessità attuale è dettata da una cresciuta rivalità geopolitica, da un contesto economico dove l’intra-trade fra Paesi «alleati», in sintonia valoriale, è aumentato del 4-6% in più rispetto agli scambi con gli avversari, a segnalare la frattura di quella imprescindibilità della globalizzazione che ha marcato i decenni precedenti.
E la complessità e le nuove sfide – su clima, disparità di reddito, ineguaglianze generatisi – richiedono, è la ricetta di Draghi, «una politica fiscale chiamata a incrementare gli investimenti pubblici per soddisfare la gamma di nuove esigenze di investimento. I governi dovranno affrontare le disuguaglianze in materia di ricchezza e reddito. E, in un mondo di shock di offerta, è probabile che la politica fiscale si trovi a dover svolgere anche un maggior ruolo di stabilizzazione – un ruolo che in precedenza avevamo attribuito principalmente alla politica monetaria», ha aggiunto l’ex premier italiano per il quale «deve esserci un percorso fiscale chiaro e credibile che si concentri sugli investimenti e al contempo, nel nostro caso, preservi i valori sociali europei».
Uno degli esempi portati è legato all’Italia e di come le politiche fiscali hanno avuto un ruolo nello stabilizzare l’economia mitigando lo choc energetico con il conflitto ucraino o le crisi della supply chain. Draghi ha riferito di come i sussidi abbiano compensato la perdita di reddito delle famiglie contribuendo, sino al 90% – il caso italiano – a supportare la perdita di potere d’acquisto per le famiglie più povere.
È in questa cornice che l’ex capo del governo ha delineato una sorta di manifesto europeo, senza la prosopopea di chi ha risposte in tasca ma con la misurata saggezza di chi è consapevole che il cammino è complesso ma che le tappe sono da superare in sequenza. E senza condizionamenti esterni. Draghi non è entrato nel merito delle presidenziali statunitensi, non si è fatto trascinare nel botta e risposta sui commenti di Donald Trump sulla Nato, ma ha sottolineato che indipendentemente dal prossimo leader statunitense, che «sia partner amichevole od ostile» l’Europa «deve darsi una mossa».
L’ex premier ha evidenziato che la globalizzazione, ambita e sognata come panacea in un mondo post-sovietico, ha in realtà mostrato debolezze che si sono poi ingigantite anche per altri fattori, come la crisi finanziaria e il conflitto ucraino. Ha citato il presidente George Bush senior che nel 1991 disse che «nessuna nazione sulla Terra ha scoperto un modo per importare i beni e i servizi del mondo mentre ferma le idee ai confini». E se – ha notato Draghi – «alcune delle aspettative si sono confermate e l’apertura dei mercati ha portato decine di Paesi dentro il sistema economico mondiale e portato fuori dalla povertà miliardi di persone», il «modello di globalizzazione conteneva anche delle fondamentali debolezze. È sempre stato vulnerabile alla possibilità che un qualsiasi Paese o gruppo di Paesi potesse decidere che seguire le regole non era il modo migliore per perseguire i propri interessi a breve termine».
E quindi, contrariamente alle aspettative iniziali, quelle in fondo delineate da Bush e da una scuola di pensiero radicata negli Usa negli Anni ’90, «la globalizzazione non solo non è riuscita a diffondere i valori liberali – democrazia e libertà non viaggiano necessariamente insieme a beni e servizi –, ma li ha anche indeboliti all’interno dei Paesi che ne erano stati i principali sostenitori, finendo anzi per alimentare la crescita di forze che guardavano maggiormente alla dimensione interna. Presso l’opinione pubblica occidentale si è diffusa la percezione che i cittadini fossero coinvolti in una partita falsata, in cui milioni di posti di lavoro venivano spostati altrove mentre i governi e le aziende restavano indifferenti». Le persone «chiedevano una distribuzione più equa dei benefici della globalizzazione e una maggiore attenzione alla sicurezza economica. E, per ottenere questi risultati, si aspettavano un uso più attivo della “pratica di governo”, assertività nelle politiche commerciali, protezionismo o redistribuzione che fosse».
Sono semi di insofferenza e scetticismo germogliati negli anni sino a mettere in discussione l’idea stessa di globalizzazione alimentando i sovranismi in molte società occidentali. In questa cornice, ci sono stati poi tanti elementi che hanno rafforzato questa tendenza, ha lasciato intendere Draghi che ha citato come «la pandemia ha messo in evidenza i rischi che derivano da catene di approvvigionamento globali estese per beni essenziali come i medicinali e i semiconduttori. La guerra di aggressione in Ucraina ci ha poi indotto a ripensare non solo a dove acquistiamo beni, ma anche da chi».
A Draghi è stato chiesto del rischio di politiche sempre più isolazioniste in Europa. Ha risposto che «i recenti sondaggi non evidenziano cambiamenti radicali» e che «anche i più duri isolazionisti devono rendersi conto che ogni Paese Ue è troppo piccolo per stare solo».
Senza nominarlo mai – Draghi non ha fatto riferimento esplico nel suo discorso a nessun leader mondiale – ha parlato di «dittatori nostalgici» parlando della «guerra di aggressione dell’Ucraina». Il cui posto è decisamente nell’Europa, un «cammino quasi prossimo». Che pone sfide ma anche opportunità perché qualsiasi ricostruzione offre delle chance: «La battaglia dell’Ucraina è quella degli europei». —