Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2024  febbraio 15 Giovedì calendario

Intervista a Lorenza Baroncelli

Lorenza Baroncelli, architetto, nata nel 1981. Dove?«In Svizzera, a Ginevra. Papà è un fisico nucleare e così io sono cresciuta accanto all’acceleratore di particelle del Cern. Ho conosciuto Zichichi e, in tempi più recenti, Fabiola Gianotti. A casa si parlava di Dio e del Bosone di Higgs. Mamma ha insegnato, per scelta, in una zona difficile della Magliana, convinta che fare l’insegnante sia una questione di dovere civile. Provi a immaginare quando ho detto in famiglia che volevo fare l’architetto».

Contenti?
«Sì, anche se papà mi vedeva come fisico nucleare o ingegnere delle particelle».
E invece lei si è laureata a Roma e poi è volata a Bogotà per studiare come le città possono combattere il tessuto criminale grazie alla bellezza.
«Esatto e adesso la faccio ridere: nel mezzo di questo percorso ho fatto svenire Stefano Boeri».

E come?
«Gli scrissi una e-mail dicendogli che, da laureanda, stavo lavorando a quel progetto e lui, gentile come sempre, mi propose di accompagnarlo da Fiumicino a Roma centro per parlare. E così feci».
E poi che cosa successe?
«Successe che io mi infervorai nella spiegazione del progetto e, in pieno luglio, non mi accorsi che avevo acceso l’aria calda invece che la fredda. Ma parlavo così velocemente che lui poverino non riusciva a supplicarmi di spegnerla. Così mi chiese di accostare, mi disse “Vaffa…” e svenne».
Immagino che lei si convinse che la sua carriera fosse finita lì, sul selciato di quella strada romana bruciata dal sole?
«Ma certo, ne ero convinta. E invece. Invece Stefano, uno dei miei mentori, uno dei “padri” professionali che più mi hanno sostenuta, mi aiutò a fare la tesi. Con la promessa che mai più lo avrei fatto salire sulla mia auto».
E così, direzione Bogotà.
«Due anni tra questa città e Medellín. Ho studiato come un luogo che fa stare bene possa diventare un antidoto al crimine. Anche se non è stato sempre facile. Una volta assieme a un giornalista del “New York Times” sono andata al confine col Venezuela, in una zona molto pericolosa. Cominciarono a sparare, fuggimmo. Altra lezione: le cose devono maturare, le città crescono con il giusto tempo, il tempo necessario».
Quanto ha aspettato questo incarico, direttrice del Dipartimento di Architettura del MAXXI di Roma?
«L’ho aspettato come si aspetta di tornare a casa, alle proprie radici. Alessandro Giuli (presidente del MAXXI, ndr), persona coltissima e elegante, mi ha scelto proprio perché cercava un profilo che unisse architettura, arte e design. E poi questo posto è opera di uno dei miei miti».

La capitana delle capitane, l’architetto Zaha Hadid.
«Proprio lei. E lo sa che anche su questa straordinaria archistar ho un aneddoto legato alle macchine?»
Racconti, racconti.
«Dunque, ero ancora a Milano, lavoravo con Boeri. Lui aveva ideato un festival di architettura e avevamo invitato Hadid. Mi occupavo personalmente dell’accoglienza degli ospiti più importanti e le mandai un’auto. Grigia. Per fortuna venimmo a sapere che lei era vestita di nero. Diventai pallida: dovevo cercare una vettura che si accordasse con il suo abbigliamento, altrimenti sarebbero stati guai. Vede, per un architetto quello dei colori non è un capriccio ma è un tema che si intreccia profondamente con la propria personalità e il proprio lavoro. Però ci riuscii».

Trovò un’auto nera?
«Sì, trovai una macchina che si abbinava a lei».
Ha conosciuto Cini Boeri, madre di Stefano e grande architetto donna?
«Sì molto bene. Soprattutto sono stata nella sua casa bunker della Maddalena, forse la casa più geniale che io abbia mai visto. Ha gli ambienti separati perché Cini era molto rispettosa dell’idea di famiglia, però con le giuste distanze tra i suoi componenti».
Donna molto tosta, Cini.
«Altroché! Una volta chiese a Stefano di farle vedere un progetto. Lo lesse attentamente e poi, senza battere ciglio, fece una profonda e accurata revisione».
E come ha conosciuto il suo compagno, il giornalista sportivo Pierluigi Pardo?
«Grazie a Totti».
Totti?
«Quattro anni fa, quando lavoravo ancora a Milano, organizzammo un talk con lui e Mentana. Ci incontrammo ma non accadde nulla. Una settimana dopo ci rivedemmo casualmente a un evento e io nemmeno mi ricordavo il suo nome, tanto è vero che mandai un messaggio a un amico per chiedergli di rammentarmelo».
Lui però ricordava bene il suo, Lorenza.
«Sì e siccome quella sera doveva seguire una partita della Roma, mi disse: “Dai, vieni con me”. “Non ci penso nemmeno”, risposi. Uno sconosciuto, figuriamoci. Allora lui giocò la carta vincente. “Se vieni, ti presento il capitano”. Come potevo rifiutare? Capitolai in nome di Totti».
Avete un figlio, Diego.
«Ha un anno e mezzo ed è la mia vita. Vede, io oggi ricopro un incarico che mi rende orgogliosa, lavoro molto. Ma io scelgo ogni giorno di staccare nel tardo pomeriggio o sul principio della sera e di tornare a casa da mio figlio. Tutti sanno che entro quelle ore io do il meglio ma poi non ci sono per nessuno. Questa scelta è il mio modo di essere una “capitana”, perché penso che ogni donna debba essere messa in condizione di vivere la propria vita di madre con pienezza e con gioia».
Il suo compagno la aiuta?
«Molto, ma questo è un altro discorso: sono io che voglio stare vicina a mio figlio. Non ero così prima della nascita di Diego. Prima c’era solo il lavoro, ma solo oggi capisco che la maternità mi aiuta a essere migliore anche nel lavoro. Perché è come se mi desse una marcia in più. E non dimentichiamoci che in certi Paesi del Nord Europa è normale staccare la sera perché si è lavorato tanto e bene nel resto della giornata».
Al MAXXI si sono di recente aperte le prime mostre che portano la sua firma. Una in particolare, dedicata ad Alvar Aalto, mette al centro non solo la sua figura ma anche quella delle due donne che hanno lavorato a stretto contatto con lui. Una svolta?
«Io penso che sia una questione di accuratezza storica e inserire anche le figure di Aino ed Elissa sia doveroso. Tante donne nell’architettura hanno lavorato e anche bene ma non sono poi passate alla storia come le figure maschili».
Non è facile essere una «architetto capitana»?
«No, per niente. Non parlo naturalmente dei rapporti in questo museo, che sono splendidi. Ma non ci sono soltanto i colleghi: ti devi rapportare con le istituzioni, con tanti altri “attori”. E, be’, se sei donna non sempre fila tutto liscio».
Il design contemporaneo. Quante facce ha?
«Il MAXXI vorrebbe diventare un luogo da aprire ai designer contemporanei, che hanno una forza e una vivacità notevole. Specie gli italiani».