Corriere della Sera, 15 febbraio 2024
Nada, la ragazza assassinata in ufficio. Un delitto imperfetto in attesa della verità
Se davvero è andata così, avevano tutto sotto agli occhi. Dopo quasi trent’anni, oggi un giudice per le indagini preliminari dovrà decidere se finalmente ci sarà un processo, un estremo tentativo di dare giustizia a una ragazza sfortunata. Che anche dopo la morte violenta ha continuato a essere vittima. Forse c’era tutto. Il magistrato e gli investigatori dell’epoca invece non videro niente. Ancora non si capisce il perché, se semplice incapacità, sciatteria, o altro. Un fallimento totale, le cui ceneri vengono come di consueto sepolte sotto la definizione di «mistero italiano». Ma Nada Cella non è soltanto «la madre di tutti i cold case», come ha sentenziato di recente un noto programma televisivo. È anche un senso di colpa.
Il sangue ripulito
Lunedì 6 maggio 1996, ore 9. Nada arriva in bicicletta, come sempre. Ha 25 anni, lavora come segretaria nello studio del commercialista Marco Soracco, al secondo piano in un palazzo della Chiavari vecchia. Qualcuno suona al citofono. Lei apre. L’assassino percorre il corridoio, entra nell’ ultima stanza a destra. La colpisce una decina di volte con un oggetto appuntito, un fermacarte o una pinzatrice. L’allarme viene dato dal suo titolare e da sua madre, che abitano al piano superiore dello stesso edificio. Chiamano il Pronto soccorso dicendo che la giovane, agonizzante, ha avuto un malore. C’è sangue dappertutto. La scena del delitto viene subito stravolta. Qualcuno concede alla madre e alla zia di Soracco il permesso di pulire le strisce di sangue lasciate dalla ragazza sul ballatoio e in alcune parti dello studio. Gli interrogatori vengono condotti con molta calma. Non c’è accordo tra gli inquirenti sull’eventualità di intercettare subito le conversazioni telefoniche degli inquilini, e non se ne farà nulla per mesi interi. Alcune perquisizioni e prelievi non vengono concessi per cavilli giuridici. Poi, il nulla.
Nel 1999, un anno dopo l’archiviazione del caso, Bruno Cella muore di crepacuore mentre sta guidando verso il cimitero dov’è sepolta la figlia. Nel 2003 alcuni investigatori si mettono in proprio e scandagliano i tre diari tenuti dalla vittima. Nel 2006 un pubblico ministero indaga due muratori albanesi coinvolti in un’inchiesta sul racket della prostituzione, che abitavano in un appartamento vicino allo studio del commercialista. Nel 2010, un altro magistrato riapre il fascicolo, confidando nell’aiuto delle nuove tecnologie. E questi sono soltanto alcuni esempi. Lo sforzo di chi si è fatto carico dell’ulteriore torto compiuto ai danni di una vittima e della sua famiglia si è sempre infranto su un errore di prospettiva. Sono stati cercati nuovi elementi al di fuori del perimetro delle prime indagini. Per riaprire il caso, ci voleva uno sguardo esterno. Qualcuno capace di immaginare una possibile soluzione tra indizi raccolti trent’anni prima e inspiegabilmente ignorati. Nel 2018, la criminologa barese Antonella Pesce Delfino si immerge nelle carte di questo delitto in apparenza così imperfetto. Ne emerge dopo tre anni, con un dossier che Silvana, la madre di Nada, consegna ai magistrati di Genova. I quali fanno altre verifiche, approfondiscono, e decidono infine di riaprire l’indagine, fino a portarla dove mai era giunta. Alla soglia del processo.
L’altra donna
Soracco e la madre Marisa Bacchioni sono fin dal primo giorno al centro di voci che in un luogo piccolo come Chiavari hanno continuato a correre indisturbate. Oggi sono entrambi ritenuti responsabili di favoreggiamento. Conoscevano l’identità del colpevole, ma secondo l’accusa temevano che il suo arresto avrebbe attirato troppa attenzione sugli affari dello studio di famiglia. Nada aveva confidato di essere preoccupata per la corte che le faceva il titolare, e per le buste piene di denaro che vedeva in ufficio. Annalucia Cecere, oggi insegnante in pensione residente a Cuneo, era già stata indagata nel 1996 per pochi giorni, dopo che una serie di telefonate anonime avevano parlato della sua gelosia per Nada. Secondo alcune testimonianze, era invaghita di Soracco, senza essere corrisposta. I pubblici ministeri sono convinti che sia stata lei a uccidere la persona della quale voleva prendere il posto. Sotto il corpo della vittima fu ritrovato un bottone identico ad altri due scoperti nell’appartamento di Chiavari dove era ospitata. Per quanto possa sembrare incredibile, all’epoca gli investigatori non diedero alcun peso alla circostanza.
Il Dna sul motorino
Nel nuovo atto d’accusa sono entrate le parole dei testimoni oculari, oggi tutti defunti, che videro Cecere allontanarsi dalla scena del delitto con un motorino che ha poi conservato per oltre trent’anni. Due anni fa, il suo ritrovamento sembrò decretare una sorta di chiusura del cerchio. Le analisi del Dna diedero esito negativo. L’unica certezza desunta dal poco materiale genetico ancora conservato è che l’assassino è di sesso femminile. C’è ancora una voce senza nome. Il 9 agosto del 1996 una donna chiamò Marisa Bacchioni per dirle che cinque persone avevano visto Cecere «fuggire» dal palazzo del delitto. La madre del commercialista sostiene di non ricordare chi fosse la sua interlocutrice. A quel tempo, secondo la ricostruzione fatta dalla Procura, la principale sospettata era una donna indigente, che veniva assistita da un istituto religioso. Da quell’ambiente provengono nuove testimonianze al momento secretate che la indicano come possibile assassina. Con quali prove, è tutto da stabilire.
Il dialogo intercettato
In alcune intercettazioni effettuate nel 2021, l’indagata, ormai al corrente di essere tale, chiede al fidanzato dell’epoca di mentire sulle date della fine della loro relazione, chiede a un’amica infermiera quanto possa «funzionare» un Dna ritrovato trent’anni dopo, e accusa Soracco di essere l’assassino, dicendo però di essersi «lavata» dopo il delitto. La madre del commercialista invece, parlando con una parente le confida che la sera stessa del delitto Cecere chiamò un’amica del figlio per rimpiazzare Nada al lavoro. La strada scelta dalla Procura di Genova è senz’altro molto stretta. Comunque vada oggi, non si è trattato di accanimento giudiziario. Ma di un atto dovuto.