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 2024  febbraio 14 Mercoledì calendario

Zola di Di Pietrantonio

anticipazone
Ho incontrato Émile Zola in quinta liceo, su un testo di letteratura francese che dopo lunghe, noiose spiegazioni delle correnti letterarie, dedicava poco spazio agli autori e prevedeva, per ciascuno, un brano significativo dell’opera. Curiosamente, per Zola riportava, al posto di una pagina tratta dai numerosi romanzi, un frammento del suo J’accuse, comparso nel 1898 sul giornale socialista L’Aurore. Ha infiammato la giovane comunista che era in me. In quel periodo della mia vita la posizione politica degli scrittori era quasi più importante del valore dei loro libri. Cercavo nelle pagine l’engagement, possibilmente dalla stessa parte dei miei ideali. Quel J’accuse ritmato, ripetuto, scagliato contro i nemici «della verità e della giustizia» mi ha conquistata. Soprattutto l’esporsi volontario dell’autore che già sa quanto gli costerà schierarsi in difesa del capitano di Stato Maggiore Alfred Dreyfus, condannato a torto per tradimento.
Nelle mie fantasie che a volte tornavano poi su Zola mi ripromettevo di leggere il monumentale ciclo dei Rougon- Macquart, dal primo all’ultimo dei venti romanzi che lo compongono. Invece ne ho scelto solo qualcuno: Nanà, Il ventre di Parigi, Germinal. Gli altri sono rimasti su un comodino immaginario, in attesa di un tempo della vita libero per la lettura. Non è mai arrivato. Quando ho avuto tra le mani La bestia umana, diciassettesimo del ciclo, nella nuova, intensa traduzione di Daniele Petruccioli, mi sono accostata con timore, in un momento in cui forse non ero del tutto predisposta alla lingua di un classico ottocentesco. E di Zola, che da giovane avevo tanto ammirato per la sua presa di posizione, mi spaventava ora l’ossatura teorica un po’ rigida esposta nel saggio Il romanzo sperimentale, considerato il manifesto del Naturalismo francese. Che personaggi avrei trovato nella Bestia umana, se lo scrittore li considerava determinati – come gli altri del ciclo – dall’eredità di Adélaïde Fouque, una contadina morta folle? E invece le prime pagine: accoglienti, scorrevoli. Un uomo che aspetta la giovane moglie in una stanza dove le ferrovie della Compagnie de l’Ouest alloggiano i dipendenti. Fuori un paesaggio di binari, casotti di scambio, locomotive in manovra: è la stazione di Parigi e Roubaud, che è vicecapo in quella di Le Havre, la osserva con interesse professionale. E noi, lettrici e lettori alla finestra con lui, non sappiamo che stiamo già entrando in un mondo, quello delle ferrovie, che è protagonista del romanzo tanto quanto lo sono i personaggi umani. Zola ce lo racconterà con una precisione quasi ossessiva. L’intera storia si svolgerà su questo asse ferroviario Parigi-Le Havre che con le sue stazioni intermedie innerva la narrazione.
Roubaud apparecchia affamato, aspetta con impazienza Séverine e intanto l’autore ce li presenta dal suo punto di vista, ma con leggerezza: lui più grande di dieci anni, lei nello splendore dei venticinque, che arriva accaldata e fremente dopo le spese al Bon Marché. Si scalda anche Roubaud, un po’ per effetto del cibo e del vino, ma di più per il rientro eccitante della moglie. Ma qui Séverine deroga alla «volenterosa docilità» con cui a casa gli si concede senza piacere, oppone un gentile rifiuto alle voglie di lui. E all’improvviso si tradisce: lei non è l’orfanella allevata con generosità dal presidente del tribunale Grandmorin, ma è stata abusata dal suo improbabile benefattore. C’è qui un primo magistrale cambio di scena, e dal quadro di frizzante intimità coniugale sostenuto dalla tensione erotica si passa di colpo a un’esplosione di brutale violenza, punteggiata dalla richiesta di Roubaud: «Confessa, ci sei andata a letto». È lei la colpevole, non il presidente. Roubaud è tradito, non importa che i fatti siano avvenuti prima dell’incontro tra lui e Séverine. È l’innesco effettivo del romanzo. Rimanda al titolo, perché di bestie umane ne contiene già due: l’orrido Grandmorin che ha abusato di una ragazzina sola al mondo, e Roubaud, capace di trasformarsi da marito apprensivo a massacratore.
Ma la vera bestia arriverà più tardi. Questi personaggi che irrompono sulla scena sono del tutto figli della teoria del romanzo sperimentale enunciata da Zola? Sono davvero portati a comportarsi in un modo che, date le premesse, non potrebbe essere diverso? Dubito che Zola nella Bestia umana abbia applicato fino in fondo il suo stesso metodo. Osservazione e sperimentazione sono senz’altro dietro la scrittura, e in alcuni momenti il peso dell’eredità viene dichiarato: «… le generazioni di avvinazzati da cui aveva avuto il sangue guasto, un avvelenamento lento, una ferocia che lo riportava in mezzo ai lupi divoratori di femmine, nel profondo dei boschi». Qui è di Jacques che si parla, è lui la vera bestia umana. Ma Jacques, Séverine, Flore, persino Roubaud non sono mai totalmente schiacciati da chi li ha preceduti. Sono personaggi che ingaggiano una lotta sfibrante contro la loro natura che vorrebbe predeterminarli. È in questo, per me, la loro grandezza, nel rifiuto a restare circoscritti in una statica definizione di sé. Zola ha tracciato un metodo che guarda alla biologia, all’esattezza della scienza, ma sulla pagina è la letteratura che vince. I suoi stessi personaggi tradiscono le intenzioni dell’autore, sono più liberi di quanto ci si aspetterebbe da loro. Séverine, per esempio, è una donna del suo tempo, vincolata dai lacci di un mondo violento e patriarcale, cellula di una società più vasta, quella del Secondo impero. Eppure non è soltanto una vittima. Ripaga gli uomini che vogliono possederla manipolandoli. Loro possono picchiarla e ucciderla, ma il potere che ha lei sulle loro menti è superiore. Come sempre hanno dovuto fare le donne sottoposte, usa il proprio fascino come strumento di affermazione personale.
Ma è Jacques, il suo amante, il più disubbidiente. Combatte dentro sé stesso la bestia che vuole sfuggire al controllo, che vuole uccidere. A un certo punto si sentirà lacerato tra amore e istinto di distruggere proprio l’oggetto di quell’amore, e sarà l’apice della sua tragedia. È proprio qui uno degli elementi di modernità del romanzo: l’eterna dicotomia tra ciò che ci spinge e ciò che è giusto, così diversamente attuale al tempo di Zola e nel nostro confuso presente. Per la bestia umana il delitto sembra essere l’unica possibilità di alleviare una sofferenza psichica insopportabile.I personaggi sono sostenuti da una lingua viva e anche miracolosamente fedele a quella usata da Zola. I suoi uomini sono in gran parte illetterati, le loro espressioni possono essere volgari, al limite della bestemmia. A costo di essere snobbato dai grandi del suo tempo, Zola si sporca le mani estraendo le parole direttamente dalla bocca dei suoi macchinisti, fuochisti, manutentori. Sono scorretti, soprattutto quando si riferiscono alle donne. Spesso in passato i traduttori hanno edulcorato, elevato anche il gergo a lingua letteraria. Ma oggi forse non ne sentiamo più il bisogno, siamo abbastanza consapevoli da poter apprezzare il testo inquadrandolo nel suo ambiente.Nella nuova traduzione Daniele Petruccioli ci offre un lavoro che è insieme di grande rispetto per l’autore e di assoluta fruibilità per chi legge. Una meticolosa ricerca ricostruisce il lessico ferroviario del tempo rendendo giustizia all’ossessione di Zola per i dettagli meccanici. Non è un tema secondario: la locomotiva è per Jacques e gli altri ferrovieri una divinità da venerare, oliare, mettere a punto con un trasporto sensuale, incondizionato. La Lison è amata al pari e più di una donna, epico è il suo viaggio nella neve, è la freccia che centrerà un futuro radioso, di benessere. E il progresso è usato qui come strumento poetico e narrativo, si potrebbe dire che Zola fa con la Lison ciò che Fellini farà con la motocicletta in Amarcord.A partire da Zola, in molti si distaccano da una letteratura concentrata sul passato, guardano al presente e al futuro.Ed è qui che ancora capiamo quanto fosse opportuno restituirci, rinnovato, un romanzo come La bestia umana. L’adesione dell’autore al progresso non è fideistica, né acritica. Per questo ci parla così da vicino mentre rischiamo la nostra sopravvivenza come specie. Mentre discutiamo di tecnologie ben più avanzate e sofisticate della Lison, per esempio l’intelligenza artificiale. Ci tocca, per la cieca fiducia di certi personaggi nel progresso, per il treno finale carico di soldati ubriachi che cantano e sono trascinati al fronte, ignari della locomotiva che corre senza controllo verso lo schianto. Così ce li mostra Zola. Forse somigliamo a quei soldati più di quanto pensiamo. Dipendenti dai mezzi digitali, deprivati della nostra memoria. Talvolta consapevoli della deriva in cui siamo presi, restiamo incapaci di governarla, di rinunciare a ciò che può distruggerci o comunque ci aliena dall’umano. Quanto è attuale, quanto ci riguarda il treno di Zola. —