La Stampa, 14 febbraio 2024
Intervista a Dino Meneghin
«Sono venuto grande all’aria aperta. Ho avuto la fortuna di crescere tra i monti, con mio fratello andavo nei boschi, su e giù dagli alberi, giocavamo in riva al Piave. Ma vai a raccontarlo ai ragazzi di oggi che cos’è l’aria aperta. Non lo sanno. E quelli che la cercano nelle città non la trovano, non hanno spazi i giovani per sfogarsi. Così nascono l’obesità e il bullismo. Hanno fatto diventare gli E-games sport olimpico: sarà una rovina».
Dino Meneghin è l’albero della vita. Settantaquattro anni, fino a 44 sul campo da basket. Quelle mani grandi hanno trattato palloni e alzato un numero spropositato di trofei: le stringi e senti la scossa.
Lei, Simeoni, Moser, Thoeni, Panatta. Nati negli anni Cinquanta, totem del nostro sport: il segreto?
«Siamo i figli del Dopoguerra, c’era una voglia da parte di tutti i genitori di cambiare. Era la libertà. Il talento ce l’ha dato il Signore, ma senza il lavoro, e senza un buon allenatore che ci capisse anche nella vita privata, non saremmo arrivati da nessuna parte: sapesse quanti talenti ho visto perdersi per strada».
Sinner non corre questo rischio. O no?
«Mi piace moltissimo. Primo non se la tira, mi pare che venga da un ambiente sano. Il fatto che non sia andato a Sanremo è indicativo, sa che da adesso in poi avrà gli occhi addosso di tutti, la pressione crescerà. Così ha preferito tornare subito ad allenarsi».
Lei ha mai provato la pressione?
«Prima di ogni finale. E quando sono passato da Varese a Milano e mi sono fatto subito male. L’ambiente era nuovo e pensavano che fossi rotto».
Quando è cambiato il basket?
«Negli anni settanta la prima svolta, da un basket da dilettanti a professionisti. Negli anni ottanta il boom, da quando sono arrivati gli ex professionisti che hanno alzato il livello e attirato i grandi sponsor”.
Niente sul tiro da tre punti?
«Una rivoluzione. E non sempre positiva. Ha trasformato il basket in una partita di hockey su ghiaccio, corri e tira. E cancellato i ruoli come il mio, il pivot non esiste più. Oggi farei la guardia alta».
Nba, ora. Wembanyama: il fenomeno francese di San Antonio, 20 anni e 2 metri e 25. Numeri da paura: marziano o nuova frontiera?
«Fenomeno. Si muove con una leggerezza mai vista, dopo Antetokounmpo ha spostato i limiti ancora più in alto. Mi sembra inarrivabile se non tra 30 anni quando gli africani mostreranno tutto il loro potenziale».
Come si migliora il basket italiano?
«Con più qualità e meno quantità, ci sono troppi giocatori anonimi. Se al posto di tre John Smith prendo un Bob McAdoo pago la stessa cifra, ho il doppio del rendimento e riempio i palazzetti».
Di tutte le Italie che ha attraversato quale le piace di più?
«Ho vissuto gli anni Cinquanta e Sessanta con molta leggerezza. Cancellerei i Settanta, i morti, i rapimenti, le contestazioni: la gente aveva paura ad uscire di casa. Negli anni ottanta ero a Milano, una goduria. Si tornava a vivere. Se avessi avuto il tempo e le forza mi sarei divertito molto. A mezzanotte le discoteche si riempivano, noi invece andavamo a dormire a quell’ora».
L’Italia di oggi le piace?
«Mi preoccupa la mancanza di sicurezza, la gente sembra impazzita per come fa del male e sa farsi del male. Avanti così e si torna agli anni bui, per questo metterei telecamere in ogni angolo come deterrente anti violenza. E poi vorrei una tranquillità politica».
Le piace la premier Meloni?
«Molto. Finalmente una donna, prima di tutto. Ha fatto la gavetta, non ha paura di nulla, Spero che faccia gli interessi di tutti e non solo dei suoi elettori».
E la sua rivale Schlein?
«Non mi fido di una che ha tre passaporti. Vuoi fare la premier? Bene, ma stracci gli altri due e tenga quello italiano se no mi viene il sospetto che se le cose andassero male se ne andrebbe all’estero».
Meneghin uomo di destra?
«No, da centro sono un uomo di centro. Non ho mai votato Pci e neanche Msi. Ho vissuto gli orrori del fascismo nei racconti di nonni e genitori. Quelli del comunismo andando a giocare all’Est prima della caduta del Muro, la mancanza di libertà, i controlli sui libri che portavo in valigia nelle trasfette: quando tornavo in Italia baciavo la terra. E ho visto le dittature di destra nelle trasferte in Grecia e in Sudamerica. So il valore della democrazia».
Come si sarebbe comportato Meneghin con un ct come Pozzecco?
«Mi piace, ma non può sempre andare a mille all’ora; deve saper dosare i falli tecnici. Peterson e Bianchini erano maestri: la squadra era sotto? Casino e fallo tecnico per fermare gli avversari. Andare alle Olimpiadi sarà durissima, ma lo confermerei anche se non ci qualificassimo».
Da giovane disse: “I sacrifici contemplano anche trascurare la famiglia”. Lo direbbe anche oggi?
«No. Ero imbesuito, pensavo solo al basket. Avrei dovuto organizzarmi di più».
Il rimpianto resta l’Nba, il rimorso il rapporto con suo figlio Andrea e la mamma?
«Si. Mi rimarrà sempre il dubbio di che cosa avrei combinato negli Stati Uniti. Con la famiglia ho sbagliato a gestire tutto quando Andrea era bambino».
Che cosa direbbe Meneghin a un giovane Dino?
«Di lavorare di più sulla tecnica di quanto abbia fatto io. Il mio idolo è Jokic, ecco io avrei dovuto saper fare come lui. Una tecnica e una visione di gioco straordinarie, tutti i nostri centri dovrebbero vedere come gioca».
Jokic all’estero. E in Italia in chi si rivede?
«Nicolò Melli. Intelligente, sa giocare anche sotto canestro. Altruista, uomo squadra».
Chi vince lo scudetto?
«Milano o Bologna più attrezzate nel lungo, ma occhio a Brescia, che può ripetersi anche in Coppa Italia, e Venezia».
Milano e Bologna arrivano nella Final Eight di Eurolega?
«Bologna sì, per Milano è durissima».
Giorgio Armani si stuferà mai dell’Olimpia?
«No, mai. La fortuna di certi giocatori è che con lui vengono trattati come topolini nel formaggio».
Tre squadre in carriera: Varese, Milano e Trieste. Per chi tifa?
«Soffro per tutte e tre. Se giocano male cambio canale o mi metto a chiacchierare con mia moglie». —