la Repubblica, 14 febbraio 2024
Cosa è successo a Rigopiano... Aspettando la sentenza di oggi
Il 18 gennaio 2017 sarà per sempre ricordato come un giorno maledetto, in Abruzzo. A una nevicata epocale si aggiungono alcune scosse di terremoto. Non si può neanche scappare fuori casa, per quanta neve c’è. Il meteo l’aveva prevista, però.Alle 16,45 dal Monte Siella si stacca una valanga che investe l’hotel Rigopiano, a 1.200 metri di quota. Nel crollo muoiono ventinove persone, tra ospiti e dipendenti. Alcune subito, altre nelle ore e nei giorni successivi, sotto le macerie ghiacciate.Quell’albergo doveva essere chiuso in condizioni così avverse. Quell’albergo non doveva essere lì.Si è capito solo più tardi, troppo.Sono passati sette anni. Dalle loro grandi fotografie incorniciate Sara e Claudio ti guardano comunque, per quanto tu ti sposti nella stanza. È una sala da pranzo al terzo piano di una palazzina popolare, ad Atri. Dalla finestra un panorama di mare e calanchi, più lontana la Maiella.Claudio abitava nella palazzina qui di fronte, si sono innamorati presto lui e Sara. Quando uscivano portavano anche la sorella di lei, Silvia, una bambina allora, di dieci anni più piccola. Adesso siede a questo tavolo, davanti a me, gli occhi di un azzurro chiaro così diversi da quelli castani con cui Sara ci guarda. Nella foto più ingrandita forse era a una cerimonia. La sua presenza qui dentro è più forte delle nostre, reali e desolate.Sara ha cresciuto questa sorella. Ne ha avuto cura, le ha perdonato tutto il necessario. A ventidue anni le è tornata incinta, e non sapeva che fare. Qualunque cosa tu decida, non sarai sola, le ha detto Sara. È la zia a sentire per la prima volta il battito cardiaco della futura Alessandra, è la prima a prenderla in braccio. Lei non aveva figli, e di questo non parlava con nessuno. Non si è sostituita a Silvia, ma è stata una zia speciale, una seconda madre più adulta. Alessandra se ne andava a dormire dagli zii con il trolley di Hello Kitty.Quella bambina ora adolescente l’abbiamo incontrata sotto, giocava a pallavolo. Ha chiamato l’avvocata Della Vigna, che mi ha accompagnata. Wania, l’ha chiamata. Ormai la considera una persona di casa, questa donna che chiede giustizia per i suoi zii uccisi da una valanga e da colpe umane.Alessandra ci ha precedute su per le rampe di scale, uguale a sua madre, a parte l’apparecchio ortodontico e quell’aura di chi sta sbocciando. Ha capito subito che doveva lasciarci sole, noi tre a parlare di una perdita che la riguarda.Sono passati sette anni. Dalle loro foto Sara e Claudio ti guardano comunque. Una sospensione palpabile aleggia nell’aria, è l’attesa della sentenza d’appello. In primo grado ci sono state assoluzioni e solo cinque condanne lievi. I reatiipotizzati per i trenta imputati – politici, funzionari, ex Prefetto, gestori dell’hotel – erano: disastro colposo, omicidio plurimo colposo, lesioni plurime colpose. E anche: falso, depistaggio, abuso edilizio.Il Procuratore capo Bellelli e isostituti Benigni e Papalia avevano chiesto 150 anni in totale. Per chi ha rilasciato concessioni discutibili, chi non ha chiuso l’hotel per tempo, chi non ha assicurato l’agibilità dell’unica strada, chi ha sottovalutato le prime richieste di aiuto.Forse Sara non ci avrebbe mai pensato a trascorrere qualche giorno sotto il Monte Siella. Le hanno regalato un voucher, e così sono partiti. Sono anche rimasti un giorno in più, allettati dall’offerta di un prezzo stracciato. Il giorno fatale.Inviavano a Silvia foto e video felici. L’ho visto anch’io quel video, Silvia mi teneva il telefono davanti, la mano un po’ tremante. Chissà quante volte Sara corre ancora nella neve e poi si tuffa nella piscina bollente, in mano a sua sorella.Qualcuno poi ha detto dei morti che erano stati degli incoscienti ad andare nel resort con quelle previsioni meteo, che in qualche modo se l’erano cercata.Quel 18 gennaio qui ad Atri mancava la corrente elettrica e il gas come in gran parte della regione. Alessandra aveva le labbra viola dal freddo. Un parente è arrivato fin qui per portarle sulla costa. Uscendo, Silvia ha guardato verso la montagna da cui non arrivavano più foto, video, notizie. Ha visto tre lampi blu e ha avuto paura.Racconta il dopo, l’attesa. Le notizie con il contagocce, le notizie false. Stavano tornando, se ci mettevano tanto era solo per tutta quella neve. Il sollievo per la loro salvezza. Non era vero.Silvia ci ha creduto a lungo alla resistenza di sua sorella, poi si è arresa. Ha concentrato una speranza residua sul cognato, che era uno sportivo. Mi mostra i muscoli del podista nelle fotografie. Sono stati tra gli ultimi a essere trovati.Era stato il cemento armato a ucciderli, cedendo all’onda d’urto della valanga a 100 chilometri all’ora, caricata di tronchi, rocce, tutto ciò che aveva raccolto nella sua corsa. Come gli altri ospiti e i dipendenti, Sara e Claudio erano rimasti prigionieri dell’hotel e della strada bloccata. Sono morti vicini, lei per trauma toracico, lui cranico.Silvia ha dovuto riconoscere la sorella da una foto del viso. «Era bella», dice, «non era rovinata». Claudio non gliel’hanno potuto mostrare, invece.Ho chiesto a Silvia cosa si aspetta dalla sentenza. Riflette a lungo, guarda la sua avvocata.«Che vengano condannate le persone giuste», risponde. «Che la legge venga applicata così com’è, senza forzature».È grata a chi sta combattendo una battaglia di giustizia per i morti e per i sopravvissuti, nomina uno per uno Giuseppe Bellelli, Anna Benigni, Andrea Papalia. Poi stringe la mano di Wania, sul tavolo. Sembra stanca, svuotata. Ha finito, penso. E invece torna a rispondere alla domanda: «Mi aspetto che i colpevoli non diventino le vittime». Ogni tanto succede, in questo Paese.