la Repubblica, 14 febbraio 2024
La stanza di David Lynch
Nel 2017 proposi a David Lynch il premio alla carriera della Festa del Cinema di Roma, e lui accettò chiedendomi però di incontrarci prima della cerimonia nella sua villa di Los Angeles. Credevo volesse parlare della scaletta della cerimonia, ma lui mi disse: «Voglio farti vedere cosa sto facendo in questo periodo». Ero convinto che si trattasse di qualcosa che aveva girato e ne ero felicissimo: da anni l’intero mondo del cinema aspettava una sua nuova opera, e l’idea di poter proiettare anche un suo inedito avrebbe reso la serata memorabile.
Era una mattina soleggiata di quella eterna primavera che rallegra Los Angeles, e quando giunsi alla villa sulle colline di Hollywood mi colpì la penombra nella quale era immerso il suo studio. Nulla di strano, pensai, il locale era ricavato nell’interrato, ma lo studio era molto diverso da quello che mi aspettavo: pensavo di entrare in una sala di montaggio, ma invece mi trovai in un’officina piena di mobili e oggetti ancora non completati. Lynch era nel fondo della sala, vestito completamente di nero e intento a piallare un tavolo che aveva disegnato. Mi accolse con un sorriso e continuò a smussare un angolo del mobile chiedendomi di reggere una grande lima e un metro. Poi controllò e ricontrollò minuziosamente che il lavoro completato non avesse alcuna sbavatura e solo allora mi resi conto che era stato lui a costruire tutti i tavoli, le credenze, gli scaffali e le sedie sparse nella stanza, nella quale campeggiavano una foto di Eraserhead e un’insegna stradale di Mulholland Drive, la strada a cui ha dedicato un film che immortala in maniera definitiva il cuore di tenebra della città degli angeli.
Sui tavoli da lavoro c’erano trapani, pialle e altri strumenti, ma la sensazione generale non era di caos, ma di un sistema che certamente spiazzante che tuttavia aveva una logica interna da decodificare e aveva il suo cuore e il suo baricentro nello stesso Lynch. Per un attimo ebbi la sensazione di trovarmi a confronto con Prospero circondato dai suoi sortilegi, e ricordo due dettagli che mi hanno insegnato molto nella sua personalità: lo sguardo ammiccante che fece indicando le proprie mani per dirmi che ogni creazione, anche la più poetica, non nasce dall’ispirazione ma dall’abnegazione di un duro lavoro fisico. E poi il sorriso con cui cominciò a mostrarmi una dopo l’altra quelle sue creazioni: non l’avevo mai visto così sereno, ed era evidente che non si trattava di un semplice hobby, ma di un modo di esprimersi nel quale metteva tutto se stesso, non diversamente da quanto avviene nei suoi film.
Ovviamente il linguaggio cambia, ma non il suo sguardo e quello che gli americani definiscono vision : la capacità di immaginare qualcosa in anticipo e nello stesso tempo metterla nelle condizioni di poter prendere vita. Le immagini che immortala nelle sue folgoranti pellicole visionarie, così come i mobili e le stanze che realizza, appartengono a uno stesso universo, la cui materia, direbbe proprio Prospero, è a volte quella dei sogni, molto più spesso degli incubi.
Da autentico artista, sa che il suo ruolo non è quello di dare risposte, ma porre domande e interrogativi che nascono da suggestioni impreviste e spiazzanti, eppure assolutamente coerenti con il suo mondo poetico, come avviene ad esempio in Mulholland Drive, dove non sapremo mai esattamente perché le due protagoniste scoppiano a piangere mentre una cantante esegue in spagnolo Llorando in un teatro completamente deserto. Noi però ci commuoviamo insieme a loro, senza capire neanche perché la cantante svenga all’improvviso, la sua voce vada fuori sincrono e due strani personaggi vengano a prenderla e a portarla via.
L’intera scena è costruita sui primi piani delle tre donne, salvo il campo lungo dove vediamo il palcoscenico e il sipario di velluto di un teatro di altri tempi, non più quinta teatrale ma un vero e proprio co-protagonista. Ed è proprio questo ultimo elemento che rende compiuta la scena, e quella mattina, vedendolo circondato dai suoi mobili mi sono reso conto che gli interni hanno una valenza che non è soltanto decorativa o meramente simbolica, ma interagiscono e palpitano insieme ai protagonisti delle sue opere.
Quando gli amici del Salone del Mobile mi hanno coinvolto in questa avventura ho ripensato alla mia sorpresa e alla sua passione, due sentimenti che si sono riproposti quando l’ho visto tuffarsi con entusiasmo nel progetto di una stanza concepita per il pensiero e la meditazione che ha voluto chiamare semplicemente Thinking Room. Poi, man mano che ne ho visto gli schizzi, le prime elaborazioni e quindi i rendering, ho avuto conferma di quello stesso approccio: è tutto coerente nell’apparente irrazionalità di quello che crea, e sin dal film di esordio Eraserhead, per Lynch gli interni non rappresentano una semplice ambientazione, ma il riflesso dello stato d’animo dei protagonisti, i quali vivono in una condizione di perenne e precario equilibrio tra l’angoscia e la tenerezza, la violenza e la pietà, il sogno e l’incubo. È quindi molto più che una stanza, questaThinking Room, insondabile come ogni anima e misteriosa come il rapporto tra la ragione e la fantasia. È un luogo nel quale ogni pulsione, ogni spasmo, ogni speranza trova un momento di riflessione, forse anche di quiete, perché in Lynch nulla è certo e definitivo, e niente è come potresti immaginare, a cominciare dalla geometria scultorea della grande sedia in legno, gli otto cilindri dorati, il soffitto a volta con tubi di metallo e le aperture sull’esterno, vuoi che siano finestre o semplici schermi. E non è certo un caso che la stanza destinata al pensiero sia avvolta nel velluto blu.