la Repubblica, 14 febbraio 2024
Intervista a Margherita Buy
Margherita Buy debutta alla regia conVolare, dal 22 in sala, commedia in cui interpreta una popolare attrice che per motivi professionali e personali decide di frequentare un corso per vincere l’aviofobia. Durante l’intervista è molto più aperta e rilassata del passato: «Farmi conoscere di più era un mio desiderio. La regia mi ha reso sicura, ho diretto un gruppo di persone senza prevaricazioni e nervosismi, con una naturalezza che ha liberato parti di me come mai avrei creduto. Vorrei rifarlo subito, è una droga».
L’ha cambiata come attrice?
«Ho capito che devo rompere molto meno le scatole sul set. Cose come “cambierei questa battuta...” non lo farò più. L’avessero detto a me su questo set, avrei dato all’interlocutore una testata in fronte».
Ha esordito alla Festa di Roma come Paola Cortellesi.
«Sono stata sfigata. Me lo chiedono tutti, come ai tennisti chiedono di Sinner. Cortellesi è una fuoriclasse assoluta. Anche Micaela Ramazzotti ha fatto un bellissimo film, con un altro risultato economico».
Da quando ha paura di volare?
«Da sempre. Non mi ha portato una cicogna, m’ha portato un tapiro.
Ricordo che accompagnavo mia sorella in partenza per New York pensando che non l’avrei rivista.
Per il mio primo film, Una storia d’amore, 1986, sono dovuta volare in Marocco, prima ho detto addio a mia madre. Poi è andata bene, ma non imparo mai dalle esperienze»
Qualcosa è cambiato col film?
«Meno terrore, ma cerco di evitare».
Il corso non l’ha aiutata?
«Mi sono divertita per l’umanità che ci ho trovato. Abbiamo preso due voli, andata e ritorno da Milano, su un microjet partito a razzo tra le urla. Per reagire abbiamo saccheggiato il duty free».
Ricorda un volo difficile?
«Un viaggio con amiche a Barcellona. Sbaglio orario e mi riempio fin dal mattino di goccine.
Arrivo alla sera, salgo a bordo e chiedo alla hostess spagnola come sarà il volo. Lei, sguardo allarmato: “un poquito de turbulencia”.
Saluto, corro fuori, prendo una navetta e, rimbambita, mi ci addormento sopra. Poi ho saputo che non c’era stato nessun “poquito de turbolencia”».
Il personaggio più negativo del film è un critico saccente e sprezzante.
«Mai avuto grosse stroncature, ma giudizi un po’ sprezzanti, legati a un preconcetto sul mio carattere, che usciva nelle interviste, ai personaggi. Gian Luigi Rondi è stato il primo a dirmi cose belle, giudicando quel che facevo e non il resto. Ai David dal suo sguardo capivo se avevo preso il premio».
E lei ne ha presi tanti, di David.
«Sono la mia gloria. Li guardo e sono molto innamorata».
Dove li tiene?
«Un po’ a casa mia, che è piccola.
Altri nella mia ex casa, mi spiaceva per loro spostarli. Vado spesso a trovare mia figlia, li vedo lì».
Il suo preferito?
«Quello che ho perso, per La stazione.Sparito, o rubato, duranteun trasloco. Se qualcuno lo trova, c’è il mio nome, prometto un bel regalo».
La Margherita di allora?
«Era un’altra persona. Appena uscita dall’Accademia, in giro due anni con il mio fidanzatoSergioRubini. Una vita bohémienne, avventurosa, senza soldi. Sergio cercava finanziamenti per il film.
Ero ingenua, felicissima, mi pareva di stare dentro un film, io che venivo da una famiglia normale».
Situazioni di turbulencia sul
set?
«È stato faticoso Il primo giorno della mia vita di Paolo Genovese.
Con Mastandrea e Servillo siamo sopravvissuti per miracolo. Girato tra gennaio e febbraio: un’ondata di gelo mostruosa e l’incubo dell’urlo del tecnico degli effetti speciali, “apri l’acquaaa”: voleva dire una doccia gelata per cinque minuti, fino alle quattro di notte».
I colleghi con cui ha riso di più?
«Silvio Orlando e Carlo Verdone, sul set con lui non si va avanti».
“Maledetto il giorno che t’ho incontrato”?
«Partiamo per Londra in aereo. Cisediamo e lui dice “non ti preoccupare, sono qui vicino a te”.
Due minuti dopo il decollo si alza e va in cabina coi piloti, aveva più fifa di me. Mi ha lasciato sola e l’ho odiato. Oggi lui è tranquillo. Gli chiedo che devo prendere per volare e lui: “Il vecchio Tavor”».
Sintonia nel film – e a Sanremo – con la “rivale” Elena Sofia Ricci.
«Con lei mi diverto. Nel film il mio personaggio è famoso per le fiction nazionalpopolari ma frustrato verso le colleghe del cinema impegnato. A me succede il contrario, vorrei fare cose per un pubblico più ampio».
Sua figlia – Caterina De Angelis – nel film la ama e la sopporta.
«Nella vita non è così. Ma è stata brava in questo scambio dei ruoli, la madre problematica e una figlia matura. Le ho trasmesso la serietà del mestiere. Ha fatto l’Accademia».
Lei ci arrivò dopo un incontro con Andrea Camilleri.
«Avevo una zia che aveva una compagnia, la andavo a vedere.
Dopo il liceo non sapevo che fare, prendendo ripetizioni dalla moglie di Camilleri scopri quel mondo. Ma dentro di me c’era già qualcosa, il mio prof di liceo diceva “devi fare l’attrice”, ero somara e facevo sceneggiate per farmi dare mezzo voto in più».
Che fiction vorrebbe? Poliziotta, dottoressa...
«Non un medico, detesto girare in ospedale. Qualcosa di divertente, da grande pubblico e senza l’angoscia “oddio non va nessuno in sala”».
Nel film le propongono un nuovo amore e lei: “No poverino, perché?”.
«Lo penso. Sento sempre dire “in giro non ci sono uomini abbastanza...”. La realtà è che non auguro a un uomo una come me, siamo complesse, formate, balene piene di incrostazioni. Servirebbe pazienza e passione da malato mentale».