Il Fatto quotidiano, 14 febbraio 2024
Da Luttazzi a Zero: la smania di “Rep” per bavagli e insulti
Il caso Ghali arriva in un periodo tormentato per Repubblica. Negli ultimi anni, da quando gli Elkann hanno rilevato la maggioranza del gruppo editoriale, diversi giornalisti se ne sono andati e più volte voci interne al giornale hanno preso la distanze da alcune scelte del direttore Maurizio Molinari. Il che senza dimenticare che la censura a Ghali ha un precedente illustre e con modus operandi molto simili a quelli di oggi, con tanto di intervista chiesta all’artista e poi mai pubblicata con la scusa di una domanda rimasta senza risposta.
È il 2008 e Daniele Luttazzi racconta tutto sul suo blog. In quel momento, è già ostracizzato dalla Rai, ha dovuto emigrare su La7 (ma il programma sarà chiuso pure lì) e, tra mille difficoltà, sta portando il suo Decameron a teatro. Luttazzi concorda un’intervista con Repubblica e chiede di poter rivedere i suoi virgolettati prima di andare in stampa. Sembra filare tutto liscio, ma il giornalista ricontatta Luttazzi all’ultimo minuto: “Mi fa sapere – scrive Luttazzi sul suo sito – che al giornale non sono contenti perché la mia intervista sembra un mio manifesto. Se fai le domande a me, cosa devo rispondere, quello che vuoi tu? E mi chiede di rispondere ad altre domande. Prego? E così la mia intervista (peraltro già corposa) non è uscita”. Proprio come nel caso del rapper, la cui intervista è stata tenuta in freezer perché non conteneva i dovuti riferimenti all’attacco di Hamas del 7 ottobre.
Lo scorso autunno fece rumore invece la vicenda che coinvolse Zerocalcare e il suo rifiuto di andare al Lucca Comics in polemica con il patrocinio concesso dall’ambasciata israeliana. Repubblica schierò le sue firme per attaccare Zerocalcare: scelta editoriale legittima, ma che sconfinò in toni ritenuti pubblicamente inaccettabili persino da diversi giornalisti di Rep. “Zerocalcare – scrisse Francesco Merlo nella sua rubrica – neppure si rende conto di somigliare ad Hamas e gli pare una gran figata buttare i suoi razzi di fumo-fumetti su Israele”.
Qualche mese prima, a far parlare di sé era stato invece Alain Elkann, giornalista e accidentalmente padre dell’editore, capace di vergare una pagina in cui descriveva un viaggio in treno in compagnia (involontaria) di alcuni giovani descritti in atteggiamenti più che normali alla loro età (non avevano orologi, non mostravano interesse per Proust, parlavano di ragazze), ma con toni di disgusto: “Non pensavo che si potesse ancora usare la parola ‘lanzichenecchi’ eppure mi sbagliavo”. Un evidente “classismo”, come denunciato dal Comitato di redazione nelle ore successive. È anche per questo atteggiamento – oltreché per le posizioni di Molinari in politica internazionale – che molte firme a quel punto avevano già abbandonato il giornale, come lo storico inviato Bernardo Valli, seguito più di recente da un altro giornalista di esteri come Raffaele Oriani. Per non dire del grande esodo del 2020, quando lasciarono tra gli altri Gad Lerner e Attilio Bolzoni, noto per l’enorme esperienza sulla cronaca dei fatti di mafia.
Capitolo a parte merita poi la gestione dell’enorme conflitto di interessi della proprietà. Repubblica si trova spesso, infatti, ad avere a che fare con notizie politiche o giudiziarie che riguardano la famiglia Elkann, con tutto ciò che ne consegue. Non meraviglia perciò che a fine gennaio Carlo Calenda abbia denunciato di essere stato “silenziato” per settimane dal quotidiano dopo aver duramente attaccato le politiche di Stellantis, il colosso dell’auto di casa Agnelli. Di pochi giorni fa è poi la notizia di un’indagine su John Elkann e alcuni altri manager legati alla famiglia, tutti accusati di presunti illeciti fiscali. Notizia confinata da Rep a pagina 20 senza alcun richiamo in prima pagina. Scelta quantomeno anomala, vista la rilevanza pubblica di un’indagine su una delle più potenti famiglie d’Italia.