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 2024  febbraio 13 Martedì calendario

Philippe Daverio raccontato da Pierluigi Panza

Aveva un farfallino colorato per ogni occasione.
Il Cenacolo? «Se devi passare attraverso camere iperbariche per vedere un affresco togli l’aura e trasformi l’arte in qualcosa di asettico».
Il Louvre? «Prestano tele ad Abu Dhabi e aprono un McDonald: ma non è obbligatorio attirare otto milioni di persone per far mangiare gli hamburger».
Milano? «Ci sono collezioni inestimabili, ma c’è disgregazione del patrimonio: bisogna superare questa frammentazione con la Grande Brera».
Forse quest’anno si avvererà questo desiderio di Philippe Daverio, il più europeo dei critici e divulgatori d’arte, aria da eterno ragazzo, mezzo italiano e mezzo francese, scomparso nel settembre del 2020.
Alsaziano di Mulhouse (1949), città contesa sin dai tempi degli Asburgo, aveva studiato «in maniera rigorosa in un collegio episcopale» con i suoi fratelli, lui, quarto di sei figli di un padre italiano che di nome faceva Napoleone e con un prozio, mi disse, che aveva fatto le Cinque Giornate. «Sai, eravamo degli europei di base. In casa si parlavano tre lingue e due dialetti; mio nonno fece il servizio militare a Berlino e il mio prozio a Parigi. Siamo venuti in Italia per una operazione immobiliare a Varese fatta da mio padre». Un’educazione ottocentesca, che si conclude alla Bocconi: «Come diversi amici, anche loro sessantottini, non mi sono laureato. Ho dato l’ultimo esame, non la tesi». C’erano le manifestazioni da fare, c’era da cambiare il mondo: la grisaglia mai e per i manifestanti ebbe sempre un debole. Si mette a fare il mercante d’arte e apre gallerie a New York e Milano non senza paurose peripezie: «L’arte è un virus», dice. Diventa meneghino e ama ripetere una frase: «A inizio Seicento, Milano era la più popolosa città di Spagna. Prendiamo il 1608: mentre a Roma appena si ipotizzava la costruzione della villa di Scipione Borghese qui nasceva l’Ambrosiana, il grande scrigno dei tesori dei Borromeo». Era la sua risposta al celebre adagio di De Crescenzo: quando voi eravate ancora sulle palafitte noi eravamo già...

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Dopo aver sposato, nel 1983, Elena Gregori (un figlio, Sebastiano), bisnipote del fondatore del «Gazzettino», Philippe diventa il principe dei divulgatori d’arte. Ci si incontra al bar Giamaica di Brera dove, prima di lui, stazionavano Piero Manzoni, Aldo Calvi e i pittori che nel 1957 avevano organizzato la mostra «Giovani pittori al Bar Giamaica». Non è quasi mai solo: una volta con la Aulenti, una con Bradburne... Sorriso aperto, fuma il sigaro, beve il bevibile. Presentiamo insieme un mucchio di libri nella Sala della Passione di Brera: non c’è bisogno di prepararsi, sia perché sappiamo, sia perché so che la gente va per lui.
Abita in piazza Bertarelli e spende volentieri i soldi per l’affitto di case spaziosissime dove poter camminare e «far stare comodi i cani» (Tom e altri): oggi i suoi arredi, la sua biblioteca e gli oggetti d’arte e di affezione sono raccolti nel refettorio quattrocentesco del monastero di Sant’Agostino Bianco, sotto le volte del Bramante e all’ombra di un affresco di Montorfano. Dietro una porta in fondo al cortile del palazzo scopri ritratti di Hayez, bronzi di Vincenzo Gemito e Arturo Martini, un osso di dinosauro e cimeli napoleonici.
Il sindaco leghista Marco Formentini (li presentò l’editore Mario Spagnol) lo chiama in Giunta come assessore alla cultura (1993-97). L’esordio è con una installazione stile Luna Park davanti al Palazzo Reale del Piermarini. Una mattina, con altri, ci dà appuntamento sul presto perché dobbiamo capire dove siano finite le vecchie poltrone del Piccolo Teatro. Ricordo che finiamo in un deposito in periferia a cercarle perché vuole che siano recuperate e messe a posto con il rigattiere che non capisce. Passerà dal sostegno alla Lega a quello a Più Europa: può sembrare un paradosso, ma non lo è. Daverio era un europeista delle identità, un glocal. Napoleone e Churchill – del quale imitava la posa con il sigaro – erano i suoi idoli laici.
Nel ‘99, ormai noto, lo chiamano in tv: «Art’è» sui Raitre, poi «Art.tù», quindi «Passpartout» (su YouTube, canale Officina Daverio, si possono vedere episodi della prima stagione), seguito da «Il Capitale»: lui era di sinistra, forse, come tutta la sua generazione. La cosa che più detesta sono le mostre di cassetta sugli Impressionisti: «Gli impressionisti e il fiume, Gli impressionisti e la neve… perché non anche Gli impressionisti e la maionese? Una mostra non dovrebbe essere un luogo di consumo, ma di ricerca».
Nel 2008, un mio solito libro erudito scaccia-lettori (una biografia di Giovan Battista Piranesi edito da Bompiani) partecipa al Premio Campiello e arriva, sorprendentemente, in cinquina. Scopro che in giuria c’è lui e in quell’estate ci vediamo spesso perché si deve fare un tour (terribile) degli autori. Una volta siamo sul pontile davanti a Ca’ Giustinian a Venezia, mi prende sottobraccio e mi dice: «Non sperare di vincere». È l’amichettismo al contrario: mi lascia intendere che ci sono altre logiche. Il mio libro vincerà il Premio Selezione Campiello, la serata finale andrà a Margaret Mazzantini.
Nella sua casa aveva molti pianoforti e amava suonare Mozart. Tanto che la Regione Lombardia lo nomina nel Consiglio di amministrazione della Scala e lui recita in teatro nella parte del narratore Njegus nell’operetta Die lustige Witwe («La vedova allegra») di Franz Lehár. Scherzando ripete: «L’Italia non è un Paese fondato sul lavoro, ma sul melodramma». La sera della prima un sacco di gente è lì per lui, che in realtà deve recitare due parole.
Nel 2011, in concomitanza con i festeggiamenti per il 150mo anniversario dell’Unità d’Italia, fonda il movimento d’opinione «Save Italy» che si propone di sensibilizzare i cittadini alla salvaguardia dell’eredità culturale dell’Italia: contribuirà a far abbandonare il progetto per una discarica di fianco a Villa Adriana. Quando nel 2016, per non mettere a disagio il presidente dell’Iran Hassan Rohani, il Governo italiano (Renzi) decide di nascondere i nudi delle statue greche e romane dei Musei Capitolini scrive un post di fuoco: «Le cortesie della diplomazia vanno rispettate, ma devono altrettanto avere un limite e questo può essere solamente quello di non fare concessioni che implichino una auto-umiliazione o una offesa alla propria cultura».
Carico di notorietà diventa collaboratore di molti giornali e cura iniziative d’arte legate al Corriere della sera: sa benissimo che saranno recensite sul quotidiano, tuttavia telefona sempre per ringraziare e commentare. Diventa direttore di Art Dossier e docente a Palermo nel 2016 per «chiara fama». Esordio: «Palermo è una città naturalmente splendida, che ha una forte inclinazione verso il degrado». Sugli esami universitari, quando ne parliamo, siamo completamente d’accordo: «Negli esami all’università si capisce subito se uno c’è oppure proprio non c’è: basta annusare». Dopo due minuti potresti dare il voto, il resto è teatro. I neoborbonici se la prendono con lui perché elegge come borgo più bello d’Italia Bobbio e non Palazzolo Acreide. Si stufa e sbotta: «Ho paura dei siciliani, l’intimidazione è nelle loro tradizioni, sono convinti di essere il centro del mondo».
Pubblica moltissimi libri divulgativi: «Sono un modo libero e artigianale per guadagnare», confida: l’ultimo uscito è Geniali. I 60 artisti che hanno segnato la storia dell’arte (Solferino). Del suo Le stanze dell’armonia esiste una versione cinese.
Curioso doc, amava l’universalismo della cultura digitale mentre sprezzava i social. Geniale come il Barocco, Daverio fu ricciolo e scienza insieme, un po’ Giovan Battista Marino e un po’ Keplero. Ricevette il Toson d’oro e fu sinceramente gratificato dalla Lègion d’Honneur che gli concesse la Francia.