Corriere della Sera, 12 febbraio 2024
Intervista a Marina Caprotti
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La presidente di Esselunga Marina Caprotti: «Riporto in libreria Falce e carrello per onorare la memoria di papà».
iceva di sé: «Sono un droghiere». Non è previsto che i droghieri finiscano sui giornali. A Bernardo Caprotti, che nel 1957 aveva portato i supermercati in Italia con Nelson Rockefeller, capitò per la prima volta a 50 anni dall’inaugurazione del «negozio» (lui lo chiamava così) di viale Regina Giovanna a Milano. Il 21 settembre 2007 affrontò la ressa di giornalisti e fotografi per presentare Falce e carrello (Marsilio), il libro in cui denunciava mezzo secolo di ostacoli disseminati dalle Coop sul cammino della sua Esselunga, che attualmente conta 191 punti vendita con un fatturato destinato a superare i 9 miliardi di euro nel bilancio 2023, dà lavoro a 26.000 dipendenti e ha quasi 6 milioni di clienti fidelizzati.
Ora tocca alla figlia Marina, l’ultimogenita, ancora più schiva del padre, metterci la faccia. «In memoria di un uomo che non può più difendersi», recita il sottotitolo della riedizione di quel long seller divenuto un classico del pensiero liberale, da stamane di nuovo nelle librerie con una «Lettera a papà» scritta da lei, la presidente dell’Esselunga, e una toccante prefazione della senatrice a vita Liliana Segre, che di Caprotti, morto nel 2016 una settimana prima di compiere 91 anni, fu amica sino all’ultimo. Il ritorno di Falce e carrello è quasi un atto dovuto dopo che un altro libro ha cercato di demolire la figura del fondatore della catena di supermercati. A firmarlo è stato l’unico figlio maschio, nato dal primo matrimonio.
Ha dovuto difendere la storia familiare.
«Sì. Ho avvertito l’obbligo morale di raccontare chi fu davvero Bernardo Caprotti, anche con i contributi di coloro che lo conobbero da vicino, come Liliana Segre, e ci lavorarono accanto: Vincenzo Mariconda, vicepresidente dell’Esselunga, e Carlo Salza, a lungo amministratore delegato. Non potevo accettare che venisse svilito il valore di ciò che lui ha costruito per l’Italia e che ogni giorno ci sforziamo di preservare in Esselunga. Mi è sembrato il modo migliore per replicare a un figlio che lancia le sue accuse solo a sette anni dalla morte del genitore. Se mio padre fosse stato vivo, avrebbe di sicuro reagito. L’ho fatto io per lui».
Il suo fratellastro racconta che il padre nascose la nascita della sorellina, cioè lei, agli altri due figli di primo letto, che studiavano nell’Institut Le Rosey, in Svizzera.
«Non l’ho mai chiamato fratellastro. Per me rimane mio fratello, anche se non ci parliamo da una ventina d’anni».
Che cosa non funzionò fra Bernardo Caprotti e il primogenito?
«Erano due personalità agli antipodi. Uno cacciatore, l’altro ambientalista; uno amava i cani, l’altro i gatti; uno non vide mai una partita di calcio, l’altro era un tifoso. Di carattere austero, mio padre aveva la laurea in giurisprudenza, non in psicologia».
«Che la nostra sia una famiglia particolare, senz’altro litigiosa, è un fatto», lei scrive nella «Lettera a papà» che apre la riedizione.
«C’è un aspetto caratteriale che accomuna tutti i Caprotti: la caparbietà. Ma hanno pesato anche eventi laceranti. Mio nonno morì nel 1952 in un incidente d’auto e mio padre a 26 anni si ritrovò sulle spalle il peso dell’azienda di famiglia, la Manifattura Caprotti. Il fratello più giovane di papà si mise con la moglie dell’altro fratello. Questo generò due divorzi, traumatizzando figli e cugini. Una frattura verticale. Essendo nata dopo, mi sento graziata».
Che aggettivo sceglierebbe per suo padre?
«Affettuoso. Il sabato, finito il giro dei supermercati, tornava a casa con le borse della spesa e insieme ci mettevamo a sgranare i piselli».
Quando le disse che sarebbe toccato a lei guidare l’Esselunga dopo la sua morte?
«Mai. Era troppo in ansia per l’esito delle battaglie legali in famiglia: lo hanno distrutto. E poi diceva e non diceva. La verità è che per lui era impensabile lasciarla. Verso la fine il dilemma fu: la vendo o non la vendo? Aveva ricevuto formidabili offerte da fondi americani e inglesi, l’ultimo fu Blackstone. “Marina, metti tu la firma”, mi esortò. Risposi: no, la metti tu, papà. E lui non la mise. Negli ultimi giorni di vita, lucidissimo, m’impartiva istruzioni pratiche su tutto, a cominciare dai collaboratori».
Ma se lei avesse messo quella firma?
«Spettava a lui farlo. L’Esselunga l’ho sempre considerata sua, nonostante il 70 per cento l’avesse da tempo donato a me e a mia madre».
Che ricordo ha del vostro congedo?
«Papà morì di vecchiaia nella clinica Capitanio di Milano. Ero al suo capezzale insieme con mia mamma e mio marito, quando spirò. C’erano anche Mariconda e Salza. Appariva rassegnato, sereno. So che sembra assurdo dirlo, però di quel trapasso mi colpì la dolcezza».
Perché volle essere sepolto all’alba e chiese che sui giornali non uscissero necrologi?
«Era riservato, preferiva l’essenzialità. L’unica figura in cui si sarebbe riconosciuto è quella del calvinista che il suo amico Indro Montanelli tratteggiò nel libro L’Italia della Controriforma. Aveva per religione il lavoro. Ho trovato una sua lettera in cui scrive: “Se vado alle origini, alla mia vera natura, trovo un bambino piccolo, fragile, disperatamente timido e disperatamente solitario”. La mattina del funerale chiudemmo i negozi in segno di rispetto. Immagino che se ne sia dispiaciuto parecchio».
Lei gli giurò che l’azienda, oggi al 100 per cento sua e di sua madre Giuliana Albera, sarebbe rimasta della famiglia Caprotti.
«Rinnovo la promessa con le sue stesse parole: “Nessuno, a Dio piacendo, potrà mettere le mani sull’Esselunga. Nessuna ‘cordata’, nessun raider di provincia, nessun concorrente inesperto, nessun finanziere d’assalto”».
Vede questo rischio?
«L’ho già visto, quando ci fu l’offensiva di Giulio Malgara, con la sua compagna di allora, di mio zio Claudio e della loro cordata di cinesi. Andò a tutti molto male».
Un giorno l’Esselunga passerà ai suoi figli?
«Me lo auguro, anche se la prospettiva mi sembra prematura: hanno 17 e 16 anni. La grande sfida del passaggio generazionale è un tema assai poco considerato in Italia. Dovremmo imparare dai francesi, che la sanno gestire meglio di noi, con minore emotività».
Avverte il peso del ruolo che le è toccato?
«Molto. Guidare un’impresa da cui dipendono 26.000 persone, alle quali si aggiungono migliaia di collaboratori in aziende per la produzione e i servizi collegate con l’Esselunga in modo stabile, è una responsabilità enorme, che comporta solitudine e notti insonni».
I rapporti con le Coop restano difficili anche dopo la morte di suo padre?
«Sì. Ovunque tentiamo di insediarci, fanno muro. Per l’Esselunga di Genova San Benigno, Coop Liguria ha proposto otto ricorsi fra Tar e Consiglio di Stato, ma abbiamo aperto. Per Sestri Ponente altri due al Tribunale amministrativo regionale. Insomma, il copione si ripete. Oggi però in Emilia-Romagna, grazie al presidente Stefano Bonaccini, riusciamo a dialogare apertamente. Lui ha capito che il Pd deve rinnovarsi anche sul versante economico».
Bernardo Caprotti era un anticomunista.
«Aveva letto tutte le biografie di Winston Churchill. Era un thatcheriano convinto e vedeva nella sinistra un freno alla libertà d’impresa. Ma rispettava i comunisti intelligenti, come Pier Luigi Bersani: papà nel 2014 accorse nella sua casa di Piacenza e stette un’ora a parlare con l’ex segretario piddino, convalescente dopo un’operazione al cervello. E provava simpatia per Matteo Renzi, lo considerava un uomo del fare che tentava di cambiare l’Italia».
Chi ha avuto l’idea di puntare, nei vostri spot, su una pesca, su una noce e, in questi giorni, su una carota e sull’amore fra padre e figlia, anziché sulle offerte speciali?
«Small, agenzia di New York fondata da due italiani, Luca Pannese e Luca Lorenzini. Volevamo valorizzare la spesa in un luogo che è una palestra di umanità. Ci sono clienti che si fidanzano nei nostri supermercati. Una bimba ha visto che una signora, accompagnata dalla figlia, arrivata alla cassa non aveva i soldi sufficienti per il pandoro e ha chiesto al padre di pagarglielo. “D’accordo”, ha risposto il genitore, “ma tu in cambio riporta sullo scaffale il tuo gioco”. Ha mai sentito una lezione più bella?».
No.
«Vedo troppa conflittualità intorno a noi: in famiglia, architrave della società naturale descritta dall’articolo 29 della Costituzione, e poi in politica, sui giornali, nel lavoro, sui social, in tv. Credo che l’Italia abbia bisogno di una campagna di alfabetizzazione civile e sentimentale. I nostri spot provano a promuoverla».
Avete suscitato reazioni controverse.
«Però ci sono arrivate migliaia di messaggi da persone che si congratulavano».
I vostri clienti vi spediscono molte lettere?
«Certo. Una mamma mi ha scritto: “Come posso insegnare a mio figlio che non si ruba se, quando andiamo per la spesa all’Esselunga di Milano Porta Nuova, molti lo fanno?”. Eppure quello è il quartiere dei grattacieli. Sta passando l’idea che il furto sia un diritto».
Suo padre si affidò a Giuseppe Tornatore, premio Oscar per «Nuovo Cinema Paradiso», e divenne «Il mago di Esselunga».
«Da droghiere s’improvvisò fornaio. Porgeva al piccolo Sandrino una baguette sagomata a forma di “S”. Nutriva un profondo rispetto per il pane, lo riteneva un servizio indispensabile».
Amava anche i dolci.
«Elisenda è stata la sua ultima sfida. Mandava l’autista a comprare i macaron nella pasticceria Ladurée di Ginevra. Ci abbiamo messo anni per riuscire a produrli uguali da noi».
Fece disegnare alcuni superstore a Luigi Caccia Dominioni, Mario Botta, Vico Magistretti, Ignazio Gardella e commissionò progetti anche a Renzo Piano e Norman Foster.
«Era appassionato di architettura, grafica e design. È una tradizione che manteniamo viva. Stiamo lavorando con Mario Cucinella per Santa Giulia a Rogoredo e con lo studio di architettura giapponese Sanaa di Kazuyo Sejima e Ryue Nishizawa per un campus a Limito di Pioltello dedicato al benessere dei nostri dipendenti».
Fu affascinato dalla «Testa di Cristo Redentore» di Gian Giacomo Caprotti, ribattezzato Salai dal suo maestro Leonardo da Vinci.
«Nel 2007 la comprò a un’asta di Sotheby’s, a New York, per mezzo milione di dollari. La teneva in camera e di notte la contemplava. Alla fine la donò alla Pinacoteca Ambrosiana. Però rimpianse di non averla data ai Musei Vaticani quando a dirigerli c’era Antonio Paolucci».
«Una esperienza molto negativa, fino al dileggio», ricordò indignato nel testamento.
«Papà fu così ingenuo da non rivolgersi per una valutazione al sinedrio internazionale leonardesco, che lo scorticò. Perciò cancellò i lasciti dei quadri di Giuseppe Pellizza da Volpedo e Telemaco Signorini alla Galleria d’arte moderna di Milano. E La Vergine col coniglio bianco di Édouard Manet la regalò al Louvre. In fondo, si riteneva mezzo francese: mia nonna Marianne Maire era nata a Épinal, nei Vosgi».
So che suo padre pensava a un altro libro.
«Sì, di memorie, ma la morte gli ha impedito di scriverlo. Aveva già in testa il titolo, Requiescantinpace amen, dettato dalla nostalgia per quel mondo antico, analfabeta, che bisticciava con il latino ma era ancorato al trascendente. Adesso più che mai, requiescat in pace».