il Giornale, 12 febbraio 2024
Benedetto Croce antifascista «riluttante», amava Mussolini ma sfidò Gentile A colpi di manifesto
Si avvicina il centenario della pubblicazione dei due manifesti, redatti, il primo, da Giovanni Gentile e firmato dagli intellettuali che sostenevano il fascismo (21 aprile 1925), e il secondo da Benedetto Croce, con le firme degli intellettuali che avversavano il fascismo (1 maggio 1925). Due documenti di grande rilevanza nella vita politica di allora, sia per la grandezza dei due estensori (Gentile e Croce), sia per l’autorevolezza dei firmatari dell’uno e dell’altro manifesto.
Ma sarebbe sbagliato ritenere che Croce sia stato antifascista sin dall’inizio; anzi, in un primo tempo egli fu molto favorevole al movimento di Benito Mussolini. In una intervista dell’ottobre 1923 (al Giornale d’Italia), Croce proclamava l’utilità del fascismo, poiché non era facile «superare tanto presto la somma delle bestialità commesse in Italia nei primi anni del dopoguerra». «Dove sono si chiedeva il filosofo le forze che possano, ora, fronteggiare o prendere la successione del governo presente?». E rispondeva: «Io non le vedo. Noto invece grande paura di un eventuale ritorno alla paralisi parlamentare del 1922. Per un tale effetto, nessuno, che abbia senno, augura un cangiamento». Alla domanda dell’intervistatore, se non c’era contraddizione tra la sua fede liberale e l’accettazione e giustificazione che egli dava del fascismo, il filosofo rispondeva che non «c’era nessuna contraddizione». «Se i liberali, egli diceva, non hanno avuto la forza e la virtù di salvare l’Italia dall’anarchia in cui si dibatteva, debbono dolersi di sé medesimi, recitare il mea culpa, e intanto accettare e riconoscere il bene da qualunque parte sia sorto, e prepararsi all’avvenire».
Concetti analoghi Croce ribadiva nell’intervista del febbraio 1924 al Corriere italiano. In vista delle prossime elezioni, che si sarebbero svolte con la nuova legge maggioritaria voluta da Mussolini, il filosofo napoletano formulava «l’augurio che largamente sentita la necessità di non compromettere l’opera intrapresa di restaurazione politica». Il governo presieduto da Mussolini faceva intendere «col fatto, come i precedenti col desiderio e col lamento, che non si può governare senza una maggioranza», e quindi esso chiedeva giustamente che il Paese gli desse una maggioranza compatta. Su ciò Croce non nutriva dubbi né incertezze: quella maggioranza «bisogna procurare di dargliela».
Quanto al problema se il fascismo potesse creare un sistema politico nuovo, il filosofo dichiarava con soddisfazione che di tale sistema non si intravvedevano neppure i primi lineamenti; e se qualcosa si riusciva a vedere era invece un progressivo ritorno, attraverso le elezioni politiche, alla legalità, cioè alla pratica costituzionale. Questo, però, non significava affatto sottovalutazione o addirittura negazione del ruolo e dell’importanza del fascismo, il cui centro vitale era egli diceva «l’amore alla patria italiana», era «il sentimento della sua salvezza, della salvezza dello Stato». Senonché proprio in ciò i liberali italiani avevano fallito, e il fascismo aveva risposto alla bisogna. «E stimo un così grande beneficio aggiungeva Croce la cura a cui il fascismo ha sottoposto l’Italia, che mi do pensiero piuttosto che la convalescente non si levi troppo presto di letto, a rischio di qualche grave ricaduta».
Croce votò in Senato a favore del governo Mussolini anche dopo il delitto Matteotti, benché egli incominciasse a nutrire preoccupazioni circa gli sviluppi del fascismo, il quale, preso dal mito di uno Stato nuovo, stentava a rientrare nei ranghi, e recalcitrava a riconoscere e ad assumersi l’unico ufficio che la storia che gli aveva affidato: quello di troncare l’anarchia prodotta dall’estremismo socialista, e di restaurare un più forte Stato liberale. Tuttavia, fatte queste riserve, sarebbe stato profondamente sbagliato, diceva Croce, desiderare che «il fascismo cadesse a un tratto», poiché esso non era stato «un infatuamento e un giochetto», bensì aveva risposto a «seri bisogni».
Croce passò all’antifascismo dopo che Mussolini soppresse le libertà civili e politiche e instaurò la dittatura. E l’1 maggio 1925 pubblicò, come si è detto, il manifesto degli intellettuali antifascisti. Tuttavia non si può non rilevare che ancora nella sua Storia d’Italia dal 1871 al 1915, pubblicata nel 1928, Croce darà ancora un giudizio positivo su Mussolini, e sia pure sul Mussolini socialista. Qui, dopo aver rilevato l’impotenza politica dei socialisti riformisti, egli affermava che nell’ala sinistra del Partito socialista «era sorto in quel tempo un uomo di schietto temperamento rivoluzionario, quali non erano i socialisti italiani, e di acume conforme, il Mussolini, che riprese l’intransigenza del rigido marxismo, ma non si provò nella vana impresa di riportare semplicemente il socialismo alla sua forma primitiva, sì invece, aperto come giovane che era alle correnti contemporanee, procurò d’infondergli una nuova anima, adoperando la teoria della violenza del Sorel, l’intuizionismo del Bergson, il prammatismo, il misticismo dell’azione, tutto il volontarismo che da più anni era nell’aere intellettuale e che pareva a molti idealismo, onde anch’egli fu detto e si disse volentieri idealista». L’effetto della sua logica e della sua oratoria continuava Croce fu «non lieve», ed egli fu ascoltato da non pochi intellettuali, mentre rimasero sbalorditi e smarriti i vecchi socialisti, che formavano il corpo o il ventre del partito. In realtà i vecchi socialisti rimasero sgomenti di fronte all’ «impeto» di Mussolini perché «non lo intendevano nelle sue scaturigini ideali e sentimentali, nelle premesse logiche, che era dato ritrovare solo risalendo al movimento di reazione al positivismo, movimento del quale essi erano rimasti affatto ignari, talché continuavano per loro conto a ripetere trivialità positivistiche»... Si capisce bene perché, ancora nel 1928, il ritratto di Mussolini tracciato da Croce fosse ispirato a così aperta simpatia: infatti il filosofo napoletano riteneva che Mussolini si fosse formato sul terreno di quella reazione al positivismo di cui lui, Croce, era stato il principale rappresentante. La cultura politica di Mussolini, la sua formazione ideale, erano in certa misura il risultato della lunga battaglia crociana per una nuova cultura, capace di rompere definitivamente, per un verso, col positivismo e con la mentalità positivistica, e per l’altro col giusnaturalismo e col pacifismo.