Domenicale, 4 febbraio 2024
Saba libraio e le sue copie uniche
Il 9 dicembre del 1919 un imberbe Bazlen lascia un biglietto ad Umberto Saba. Non per scusarsi, come dirà Stelio Mattioni, per aver litigato sul valore del Futurismo bensì perché il Poeta-Librario non diede un giudizio sui componimenti che li aveva lasciato in visione.
Questo, ed altro, si legge nel carteggio, di notevoli implicazioni psicologiche, con Saba che si svolge tra il 1919 e il 1926 ed è ora alla Biblioteca Nazionale di Roma. Come risponde a quest’accusa di negligenza? Nel 1921 dona una copia del Canzoniere ed una plaquette dal titolo Trieste contenente alcune poesie con la dedica «Al giovane e sapiente Bazlen poeta per fortuna mancato». Ma è una copia unica? No, perché, un’altra copia, con differente legatura fu fatta dal duo Saba/Giotti per Manlio Malabotta. Aveva ragione Mattioni quando, nella Storia di Umberto Saba, ricordava il vezzo del poeta di produrre singoli manoscritti del Canzoniere e delle poesie per omaggiare amici, per diffondere la sua opera e per ragioni di mercatura. Già nel 2013 con la Libreria Pontremoli nella Kasa dei Libri aprivo una mostra dal titolo «Dieci piccoli Saba». Dieci libri ritrovati: venivano esposti i dieci libretti, dattiloscritti, con cui Saba aveva confidato ad Aldo Fortuna di suddividere il Canzoniere (altri dieci, appartenuti a Giotti, sono conservati alla Nazionale di Roma). Idea che tramontò per sovrumani costi.
Ma a nessuno dei critici letterari parve interessante investigare tale esperimento, forse perché stranezza antiquaria. Fu così, che da buoni bibliografi, assieme a Marco Menato, allora direttore della Biblioteca Statale Isontina, provammo a scavar profondo. Ed ecco i risultati, a quasi dieci anni. Dunque, nel settembre del 1923 usciva a stampa, il Catalogo primo della Libreria antica e moderna Umberto Saba: sono ben cent’anni. E su questo primo catalogo ottimamente scrisse Massimo Gatta nel 2011. Poi silenzio soprattutto sul Saba libraio su cui pesavano tre giudizi: per il perfido Bazlen era solamente un libraio; per Alberto Vigevani era più poeta che mercante; per Biagio Marin al Saba poeta molto ha contribuito l’essere un sordido mercante.
Caso vuole che quest’anno si sia rintracciato il prototipo di quel catalogo, ma con la data del maggio 1923. Vi si elencano le edizioni della libreria, si preannuncia la vendita di libri antichi, da Manuzio a Bodoni, e moderni da Svevo a Ungaretti. In più si afferma che le schede sono opera di Saba, che la cura editoriale è di Giotti e che entrambi, ci tengono, sono dei Poeti. Si parla finalmente dei libretti dattiloscritti, singoli, con cui il Canzoniere doveva essere stampato; si capisce come funzionava questa atipica private press nata, una sorta di unicum nel Novecento, sotto il segno del magistero di Bodoni. Si guardi bene che del tipografo saluzzese, come osservò Andrea De Pasquale nel monografico La riscoperta di Bodoni nel Novecento (Crisopoli. Bollettino del museo Bodoniano, 2011) si subiva la fascinazione non sono imitandone le pratiche bibliologiche ma anche i fondamenti teoretici.
Saba si innamorò del carattere bodoniano, con cui stampava anche i suoi cataloghi d’antiquariato (anche il Canzoniere è un inno bodoniano) e mettendo in vendita nei suoi 148 catalogo ben 209 edizioni e 10 fogli volanti come dimostra Marco Menato in un saggio nel volume Da Casanova a Michelstaedter. 200 anni della Biblioteca Statale Isontina (edito da Ronzani nel 2022).
Ma era proprio il Bodoni teorico che intrigava Saba, che peraltro di tipografia e di legatura nulla sapeva e difatti tutto demandava a Giotti che sceglieva le carte, inventava le illustrazioni, creava legature artigianali. Difatti nel colophon della silloge Trieste e una donna (1921) Saba scrive chiaramente, ed è un messaggio utile a molti editori ancora oggi, che non vi potrà mai esserci buona e sincera poesia senza bella e armoniosa stampa. Parole presenti nella premessa al Manuale tipografico del 1818 dove sono ribaditi i concetti di bella stampa.
Dovete immaginare questo sogno triestino dei due poeti che, provati dalla durezza della vita, vedono nell’arte bodoniana la possibilità di entrare in un’altra dimensione, di dare classicità ai loro prodotti poetici e materiali. E allora creano più copie in fogli sciolti dattiloscritti e/o manoscritti, che li trasformavano in libretti dattiloscritti e/o manoscritti con svariate legature ed elementi figurativi di Giotti e nel passaggio da uno stato all’altro inseriscono varianti piccole o sostanziose.
Questo rendeva felice il bibliofilo che poteva affermare di possedere una copia unica (non pensando che la medesima copia unica veniva rifilata ad un altro cliente…). Ma questa pratica rende un inferno il lavoro dei filologi che devono, cercare l’originale che spesso Saba manometteva o addirittura inventava. Del resto da uno che diceva di non provenire da alcuna tradizione letteraria e che però di nascosto leggeva nella sua libreria, strutturata come una biblioteca privata, cosa ci si può aspettare?