Domenicale, 4 febbraio 2024
Un dizionario di romanesco
Un dialetto, sì, il romanesco. Ma non solo: un miscuglio fatto, come si direbbe di un cocktail, di un terzo della sua originaria materialità meridionale, un terzo della sua acquisita prossimità al toscano (che risale agli sconvolgimenti demografici avvenuti nell’Urbe tra la fine del Medioevo e l’inizio dell’età moderna), e di un terzo delle successive importazioni e innovazioni, che da Roma capitale si sono irradiate in tutta la penisola in modi vistosi, ma piuttosto diversi da quelli per cui città come Parigi, Londra o Madrid hanno influenzato la lingua nazionale dei rispettivi reami. Il romanesco contemporaneo, quello che oggi si parla nella città eterna mescolandolo disinvoltamente alla lingua colta in un inconfondibile italiano di Roma, ha ora un dizionario conciso ma ricchissimo. Asciutto e affidabile.
È il Vocabolario del romanesco contemporaneo che due autorevoli storici della lingua, Paolo D’Achille e Claudio Giovanardi (coadiuvati negli ultimi tempi da Kevin De Vecchis) hanno licenziato dopo una gestazione di molti anni. Sono oltre 7000 le parole chiosate coi loro significati, distinti in accezioni e accompagnati da citazioni d’autore (Trilussa, Dell’Arco, Pasolini, Fabrizi…) o da esempi anonimi. Sistematico è il rinvio ai vocabolari precedenti e ai repertori dell’italiano che, come il GRADIT di Tullio De Mauro, hanno dato ampia cittadinanza al lessico regionale. Ecco le tante parole che molti italiani usano, anche lontano da Roma, forse senza sospettarne l’origine capitolina (che so, bùfala “notizia falsa”, caçiara “confusione”, fregnaccia e frescaccia “sciocchezza”, jella “sfortuna”, pènnica “sonnellino”, peracottaro “persona pasticciona e inattendibile”, scanzonato “scherzoso, disinvolto, ironico”, sfottere “prendere in giro”, sturbo “svenimento”, zozzo “sporco”, e così via). Ed ecco tante voci ed espressioni che solo i conoscitori un po’ più accorti sanno spiegare esattamente, da cecagna “sonnolenza” a dàje («usato come segnale di impazienza o di disappunto quando si verifica o si ripropone una situazione spiacevole, per lo più preceduto da : vedi alla voce eddàje»), ingarellasse “confrontarsi in gara con altri”, o le forme abbreviate meco e stica delle celeberrime ma spesso equivocate esclamazioni, che tacere è bello; e poi frìccico e i suoi molti derivati, o il rinomato piotta (passato in questo secolo ai significati di 1 euro e poi di 100 euro: vedi alla voce inflazione, verrebbe da dire), donde piottare; fino al sublime stacce “rassegnarsi”, che nella forma ce sta (o ce pò stà) vale notoriamente “è possibile, è plausibile, è accettabile”. E se è possibile, a Roma più ch’altrove, bisogna senz’altro rassegnaricisi.