il Fatto Quotidiano, 12 febbraio 2024
Il razzismo negli stadi è normale
Quante volte avete letto o sentito dire che i cori e gli insulti razzisti allo stadio sono dovuti a una “sparuta minoranza” di tifosi, a quattro gatti che nulla hanno a che spartire col resto degli altri tifosi? Vi è capitato spesso? Ebbene, non è forse una bella notizia ma se non altro è vera e ha il merito di spazzar via decenni di narrazione ipocrita sul tema “razzismo e dintorni” nei nostri stadi: il 18% degli italiani, cioè quasi uno su cinque, ritiene che le provocazioni e le offese razziste siano un fatto normale, un elemento connaturato al tifo e che non ci sia nulla di male sia nell’“insultare un giocatore per la sua nazionalità o le sue origini etniche”, sia nel “dire a un giocatore zingaro o ebreo”, sia nel “fare il verso della scimmia o lanciare banane ai giocatori di colore”.
E sono il 20%, esattamente un italiano su cinque, quelli che non concordano sul fatto che “andare allo stadio dovrebbe essere un momento di divertimento e di relax per tutti e dovrebbero essere evitati tutti i comportamenti offensivi”; per il 12%, infatti, “tifare dal vivo è un modo per sfogare lo stress della vita di tutti i giorni per cui è normale che ci si lasci a volte andare”, mentre l’8% ritiene che “allo stadio è tutto concesso: è giusto che i tifosi vivano le partite con intensità e si lascino andare”.
Bisogna dire grazie a SWG, istituto di ricerche di mercato e di opinione, per questo sondaggio compiuto su un campione considerato rappresentativo di 800 persone: perché il quadro che ne esce è chiaro, disarmante e fa giustizia – demolendola – della falsa teoria delle poche “mele marce” che “nulla hanno a che fare” con la stragrande maggioranza dei tifosi. Si tratta di una balla sesquipedale e chiunque sia stato in uno stadio, non necessariamente a Verona, Bergamo o Udine, lo sa perfettamente. Dal sondaggio emerge addirittura che un italiano su due considera normale insultare la propria squadra se perde, intimidire gli avversari e insultare gli arbitri.
Ma restando in tema di razzismo e discriminazione territoriale: davvero c’è qualcuno che si meraviglia di tutto ciò? Pochi lo sanno, ma nel dossier di 84 pagine “Colour? What colour? Relazione sulla lotta contro la discriminazione e il razzismo nel calcio” presentato dalla Juventus nella sede dell’Unesco a Parigi il 27 novembre 2015, la conclusione cui il club bianconero giungeva era che estirpare il razzismo dagli stadi era impossibile: e che però non bisognava farne un dramma. “Un approccio pragmatico – scriveva la Juventus – suggerisce che l’insulto collettivo basato sull’origine territoriale sia difficilmente sradicabile con l’applicazione di veti e sanzioni” perchè “i tifosi semplicemente non capiranno e diventeranno meno ricettivi sulla necessità di disciplinarsi nell’uso di un vocabolario discriminatorio, sessista o razzista (…) In conclusione, la decisione più saggia sulla discriminazione territoriale consiste forse nel tollerare queste forme tradizionali di insulto catartico” (dal vocabolario Treccani: “Catartico: pacificante, purificatorio, rasserenante”).
Nessun rimedio, quindi? Nient’affatto. “Lo humour – suggeriva la Juventus – costituisce una risposta di grande efficacia. Le reazioni spiritose, come quella di Dani Alves riportata nel paragrafo 2-4 (al lancio di una banana il giocatore brasiliano del Barcellona rispose sbucciandola e mangiandola, ndr) hanno un impatto positivo sotto diverse angolazioni”.
Concludendo: sei nero e ti tirano una banana? Mangiala. E il problema-razzismo è risolto. Elementare Watson!