La Stampa, 12 febbraio 2024
Perché dico no al premierato
Il Governo, accogliendo varie critiche avanzate sia dalle opposizioni che dagli esperti di diritto costituzionale, ha presentato al Senato alcuni emendamenti al proprio progetto di riforma diretto a sostituire l’attuale forma di governo parlamentare con una forma del tutto inedita di premierato. La sostanza di questo progetto, incentrata sulla elezione popolare diretta del vertice del potere esecutivo, resta peraltro, nonostante questi emendamenti, del tutto immutata, perché qui sta il senso della «riforma della riforme» su cui la maggioranza non intende transigere. Ma qui sta anche il nodo del problema che mette in campo il futuro politico e istituzionale del nostro paese e su cui occorre riflettere bene.
Che significa riforma delle riforme? Se le parole hanno un senso questa espressione sottintende quanto meno due sicuri sviluppi: che a questa riforma, ove venga realizzata, ne seguiranno altre; che le riforme successive verranno a completare l’impianto di questa prima costruzione, diretta a concentrare per un lungo arco di tempo nelle mani di una sola persona fisica il livello più alto del potere costituzionale con una corrispondente attenuazione di quei controlli e di quei contrappesi che la costituzione vigente, attraverso il Parlamento ed il Capo dello Stato, fissa a sostegno dell’impianto pluralista della nostra democrazia. Sviluppi di questa natura, nell’esperienza antica e recente, hanno di solito aperto la strada, se favoriti da un clima populista, ad una democrazia del capo o, per usare un brutto neologismo che oggi si sta affermando, ad una democratura. È questo che vogliamo? Chi propone questo tipo di riforma sembra convinto che sia questo ciò che oggi vuole la maggioranza del paese al fine di perseguire due obiettivi che vengono presentati come positivi e accattivanti: aumentare la stabilità dei nostri governi e porre nelle mani dei cittadini, sottraendola ai partiti, la scelta di chi deve governarci. In realtà né l’una né l’altra di queste affermazioni rispondono al vero, ma contribuiscono a confondere le idee di un corpo elettorale che già oggi vive in uno stato di pericolosa confusione.
Non è vera la prima affermazione. Aumentare, negli equilibri costituzionali, la legittimazione ed il potere di chi è chiamato a guidare il governo può indubbiamente rafforzare la stabilità e l’efficienza dello stesso, ma per non incrinare le basi di un impianto democratico le condizioni generali del sistema politico devono permettere questo aumento. La ricetta, cioè, può funzionare soltanto in situazioni in cui esista un elevato grado di omogeneità sociale ed una maggioranza politica sufficientemente coesa, mentre non funziona in quei paesi, come è il nostro, in cui il sistema politico si caratterizza per un livello molto alto di frammentazione e divisione. In situazioni di questo tipo accentuare con accorgimenti costituzionali il potere personale del vertice dell’esecutivo significa, infatti, accrescere le divisioni in atto e, di conseguenza, indebolire non solo il Governo, ma la stessa sostenibilità dell’impianto democratico sottostante dal momento che il Governo, nel suo vertice non più collegiale, finisce per essere espressione di una minoranza.
Ma non risponde al vero neppure la seconda affermazione che viene posta a sostegno di questa riforma. I cittadini che scelgono, una volta ogni cinque anni, la persona che deve guidare il Governo senza poi avere la possibilità di controllarne, attraverso il Parlamento, l’azione politica non contano di più dei cittadini, che, nella forma del governo parlamentare, sono in grado di far sentire la loro voce durante l’interno arco della legislatura attraverso la mediazione di partiti ben funzionanti. Non senza considerare che nel premierato elettivo la scelta del candidato per la Presidenza del Consiglio non nasce dalla volontà diretta dei cittadini, ma pur sempre dal mondo della politica espresso dai partiti.
Tutto questo porta alla conclusione che il premierato, nella configurazione che oggi il Governo ha inteso dargli, si presenta, nel suo nucleo essenziale, impraticabile e inemendabile non tanto per le incongruenze tecniche che presenta (e che i costituzionalisti hanno già messo molto bene in luce) quanto per i rischi che, nelle condizioni date del nostro sistema politico, viene a presentare sul piano della sostenibilità del nostro impianto democratico.
Per rafforzare la stabilità e l’efficienza dei governi – obbiettivo che indubbiamente è giusto oggi perseguire – tante sono, d’altro canto, le strade alternative a questo incauto progetto che restano aperte e che possono condurre o sul terreno di un neoparlamentarismo corretto o di un cancellierato, salvando la collocazione primaria del Parlamento e quei poteri di controllo del Capo dello Stato che sinora hanno ben funzionato. Strade non solo in grado di rispettare l’ispirazione ed il consolidato storico del nostro impianto repubblicano, ma anche di tener conto che la forma di governo è un congegno complesso che riguarda non solo la posizione del vertice del potere esecutivo, ma tutti gli equilibri che entrano in gioco nelle democrazie rappresentative e che attengono tanto al rapporto tra corpo elettorale e Parlamento quanto al rapporto tra Parlamento, Capo dello Stato e Governo. —