Corriere della Sera, 12 febbraio 2024
I ragazzi neri delle stragi
C’ era una volta un ragazzo che nel 1969 aveva 23 anni e militava in Ordine nuovo, l’organizzazione neofascista responsabile delle stragi di piazza Fontana, piazza della Loggia e altri attentati del quinquennio nero che arriva fino al 1974. Si chiamava Claudio Bizzari, ed è morto nel 2019, a mezzo secolo dalla bomba esplosa nella Banca nazionale dell’Agricoltura il 12 dicembre 1969, 17 morti (più l’anarchico Giuseppe Pinelli precipitato tre giorni dopo dalla finestra della Questura di Milano, definito «diciottesima vittima» dall’ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano) e 88 feriti.
Il nome di Bizzari compare fin dall’inizio e ripetutamente negli atti delle numerose inchieste sugli eccidi di quella stagione, per quello di Brescia (altri 8 morti e oltre cento feriti) fu persino testimone nel processo celebrato nel 2009. In quell’occasione spiegò che «a un certo punto la dirigenza politica di Ordine nuovo, cioè Pino Rauti, decise di rientrare nel Movimento sociale italiano (di cui divenne segretario tra il 1990 e il ’91, prima dell’evoluzione del partito in Alleanza nazionale e poi Fratelli d’Italia, ndr ), al fine di tutela». Lui però, che non comprese la scelta, rimase fuori con altri «camerati». E spiegò, a proposito del clima e delle intenzioni di quegli anni: «La violenza teorica per arrivare alla conquista dello Stato, come si diceva all’epoca, poteva essere formata da tante cose, tra cui il contatto con i militari, con l’Arma dei carabinieri, contatti diretti tra Ordine nuovo e questi organi dello Stato».
È la confessione di un «ragazzo con la camicia nera» – come lo chiamano Maurizio Dianese e Gianfranco Bettin nel loro saggio La tigre e i gelidi mostri (Feltrinelli), in cui offrono «una verità d’insieme sulle stragi politiche d’Italia» – che anche in virtù e in conseguenza di quei «contatti» ebbe forse un ruolo nell’attentato di piazza Fontana. Anzi, potrebbe essere l’esecutore materiale che portò la borsa con la bomba dentro la banca. Lo suggerisce indirettamente un altro testimone del neofascismo stragista, Giampaolo Stimamiglio, pure lui militante di On che nel 1979 fece evadere il suo amico Giovanni Ventura (all’epoca sotto processo insieme a Franco Freda, fuggito anche lui, riconosciuti colpevoli solo dopo l’assoluzione definitiva) nell’Argentina dei generali golpisti, dove morì nel 2010. Ma prima, nel 1995, Stimamiglio – in missione per conto di un investigatore dei carabinieri – andò a trovarlo a Buenos Aires e si fece consegnare altri nomi, pure loro assolti e non più processabili. Più un indizio che portava proprio a Bizzari, sul quale ha aggiunto altri elementi l’ex fidanzata dell’epoca. Una vicenda romanzesca, che consente a Bettin e Dianese di disegnare un quadro ipotetico ma credibile della trama che lega quei ragazzini d’un tempo infatuati del Duce e del saluto romano a forze di polizia, apparati di sicurezza e strutture atlantiche (o filoatlantiche), trasformati nei bracci operativi della cosiddetta «strategia della tensione». Che con i suoi morti e feriti è arrivata fino al 1974, con le bombe di Brescia e dell’Italicus (ancora 12 vittime).
La tesi
Gli intrecci si prolungano fino a Bologna, dove il 2 agosto 1980 ancora una bomba uccise 85 persone
Anche nel romanzo nero di piazza della Loggia è protagonista una donna, che fu la ragazza di Silvio Ferrari, neofascista della stessa nidiata, ucciso a 19 anni dalla bomba che trasportava sulla sua Vespa per piazzarla chissà dove, una settimana prima della strage di piazza della Loggia. Giunta al culmine di una serie di attentati in città che provocarono la manifestazione antifascista colpita dall’ordigno assassino.
I ricordi dolorosi e progressivi di Ombretta Giacomazzi, raccolti dai magistrati bresciani a quarant’anni dall’attentato, ripercorrono le relazioni pericolose del giovanissimo estremista con ufficiali dell’Arma e altri uomini legati alle istituzioni, fino al riconoscimento dei luoghi degli incontri a Verona, dove lei lo accompagnava. Parla di scambi di buste e fotografie compromettenti, perché prova di quei contatti, e aiuta a comporre l’ipotesi della morte non casuale di Ferrari, voluta dai suoi stessi complici o mandanti per togliere di mezzo un possibile e potenzialmente scomodo testimone delle trame nere. Prima dell’esplosione in piazza per i quali, cinquant’anni dopo, stanno per cominciare due distinti processi contro altri due imputati (uno all’epoca minorenne) di cui torna a fare il nome l’ex ordinovista Stimamiglio.
Intrecci che ritornano e si prolungano, nella tesi sostenuta dal libro, fino alla stazione di Bologna, dove il 2 agosto 1980 ancora una bomba uccise 85 persone e ne ferì oltre duecento. L’attentato più grave della storia repubblicana, sempre di marca neofascista. Nel quale, secondo gli ultimi processi che hanno portato a nuove condanne non ancora definitive, si sarebbero riunite due diverse generazioni dell’estremismo nero raccolte sotto diverse sigle (On, Avanguardia nazionale, Nar e Terza posizione) finanziate dalla P2 di Licio Gelli con la copertura dell’ex capo dell’Ufficio affari riservati del Viminale. Una ricostruzione che lega questa strage alle altre due, già sottoscritta da tre corti d’assise che però non possono fare a meno di «congetturare» e ricorrere ad analisi storiche e politologiche – in quanto tali e di per sé discutibili – del contesto interno e internazionale per arrivare alle loro conclusioni. Forse più adat te a un libro come quello di Bettin e Dianese, che a sentenze. Proprio nella ricerca di quella «verità d ’insieme» a cui, dopo oltre mezzo secolo, l’Italia ha diritto.