Corriere della Sera, 12 febbraio 2024
il nodo irrisolto dei leader, l’america ha due problemi
Il disastro al rallentatore che è la campagna elettorale americana può infliggere danni enormi al mondo intero, per undici mesi e oltre. «Joe Biden è troppo vecchio per essere un presidente efficiente»: questa affermazione è condivisa da una maggioranza schiacciante degli elettori. Il New York Times, apertamente schierato con il Partito democratico, nel proprio sondaggio più recente conferma che il 70% degli intervistati la pensa così. Per questo 81enne la campagna elettorale è già un calvario, non passa giorno senza gaffe, errori, smemoratezze. Questo accade mentre la più antica liberaldemocrazia deve guidare l’Occidente in un mondo sconvolto da due conflitti gravi, Ucraina e Gaza, più altri focolai di tensione che possono aggravarsi. Tra Vladimir Putin che lo invita a un negoziato alle spalle del popolo ucraino, Benjamin Netanyahu che ignora la mediazione americana, l’Iran che orchestra attacchi per procura, non è il momento in cui vorremmo dubitare della lucidità del presidente americano.
Pure Donald Trump dà segnali di senescenza, ha solo quattro anni di meno (77) e non è affatto in forma. Ma i suoi problemi maggiori sono altri. L’analista dei sondaggi del New York Times, Nate Cohn, riconosce che l’età di Trump preoccupa «meno della metà» di coloro che reputano Biden inadeguato. Il repubblicano è in vantaggio nelle indagini demoscopiche.
R esta possibile un suo inciampo finale: i processi a suo carico possono costargli a novembre una mini-emorragia di voti centristi e moderati, quanto basta per perdere.
È inaudito che una nazione giovane, all’avanguardia nell’innovazione tecnologica, con l’economia più dinamica del mondo, sia ridotta a scegliere il proprio leader tra «un deficiente e un delinquente»: battuta offensiva e perfino volgare, che però riassume in modo brutale come le due Americhe percepiscono ciascuna il candidato dell’altra. Trump non fa nulla per dissipare i dubbi che una sua vittoria sarebbe pericolosa per la democrazia, oltre che per le alleanze tra nazioni libere. Ha minacciato di non difendere da un’aggressione russa quelle nazioni europee che nella Nato non mantengono gli impegni sulle spese per la sicurezza. Ma intanto c’è Biden alla Casa Bianca per i prossimi undici mesi – salvo colpi di scena – e neppure questo è rassicurante. Nonostante la qualità dei suoi collaboratori, e tutti i meccanismi di garanzia, è lui ad avere la valigetta nucleare e l’ultima parola sull’entrata in guerra.
Senza idealizzare l’America di una volta, uno scenario assurdo come l’attuale non si verificò mai. Non solo si poteva fare affidamento su quei «contropoteri» – Congresso, magistratura, media – oggi risucchiati nella guerra tribale e ideologica. In passato c’era anche quella cosa che chiamavamo, spesso in senso spregiativo, l’establishment, i poteri forti del capitalismo, i notabili di partito. L’establishment repubblicano avrebbe manovrato dietro le quinte per emarginare Trump, quello democratico avrebbe gentilmente spinto Biden verso il pensionamento. Cos’è accaduto per rendere impotenti le classi dirigenti, nel Paese più ricco del pianeta, quello che continua ad essere un polo di attrazione per i migranti del mondo intero, dal Sud globale ai neolaureati europei?
In campo repubblicano: proprio il perdurante dinamismo economico e tecnologico indirizza i giovani talenti conservatori verso l’attività d’impresa, li allontana dalla politica o dal settore pubblico. L’establishment repubblicano fu sgominato da Trump già nel 2016 in coincidenza con la metamorfosi della rappresentanza. Trump cattura le classi operaie vecchie e nuove, in misura crescente anche i non laureati afroamericani e latinos, allontanati da una sinistra che non rappresenta né i loro interessi né i loro valori. L’estremismo trumpiano ha spazzato via la classe dirigente della destra e l’ha sostituita con degli imitatori del Capo. Un disastro lo si vede al Congresso, dove i repubblicani fanno il gioco di Putin sull’Ucraina; bocciano un accordo bipartisan per frenare i migranti clandestini, nonostante che questo accordo scaturisca da una capitolazione dei democratici.
Il quadro è allarmante anche sul fronte opposto. Perché non intervengono su Biden i «notabili» di una volta – leader del Congresso, capi carismatici nella società civile, grandi finanziatori – per indurlo a un gesto di responsabilità? Anche a sinistra c’è una crisi di classi dirigenti. Una parte dell’establishment è stato coinvolto in una deriva radicale: su temi come l’anti-razzismo, l’apertura delle frontiere a tutti i migranti, le identità di genere, l’abbandono immediato delle energie fossili, ha visto prevalere le voci più fanatiche e dogmatiche, con fenomeni d’intolleranza di cui abbiamo visto le ultime manifestazioni nei campus universitari pro-Hamas. Biden che si reputa insostituibile coglie un pezzo di verità: la sua ricandidatura nel 2024 ha rinviato una resa dei conti fra l’anima moderata del Partito democratico (ancora prevalente nell’America di mezzo) e le frange radicali responsabili del malgoverno di New York, Chicago, Los Angeles, San Francisco. L’estremismo tra i giovani rende difficile estrarre una nuova classe dirigente da una generazione indottrinata a odiare l’America.
Di fronte a questo spettacolo dell’orrore, ci si può consolare ricordando che da due secoli e mezzo chi ha scommesso contro l’America ha sempre perso. Come disse Winston Churchill, l’America farà sempre la cosa giusta, dopo aver provato tutte le alternative sbagliate. La crisi attuale per certi aspetti è un remake degli anni Sessanta-Settanta: stessa lacerazione, guerre valoriali, crollo di autostima. Allora ci fu maggiore spargimento di sangue, sia in Vietnam sia nelle piazze americane. La performance economica di questo Paese, assai superiore alla Cina e all’Europa, dovrebbe essere una base su cui ricostruire il sistema politico, la convivenza civile, dei valori condivisi. Ma la gestazione di una nuova America può essere preceduta da lunghe convulsioni. Intanto al mondo delle democrazie manca un centro di gravità.