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 2024  febbraio 12 Lunedì calendario

La filiera dei prezzi

Le proteste cominciate in gennaio in Germania si sono allargate a macchia d’olio al resto d’Europa, fino a sbarcare a Sanremo. Ci sono ragioni comuni a tutti gli agricoltori europei contro le politiche Ue, ragioni nazionali, e altre ragioni difficili da attribuire a qualcuno. Il primo motivo di scontro è stato l’aggiornamento della direttiva sui limiti delle emissioni di CO2 degli impianti industriali, compresi quelli zootecnici. Il mondo agricolo si è messo di traverso e nell’accordo finale raggiunto il 28 novembre scorso gli allevamenti intensivi di bovini sono stati stralciati dal testo. Il secondo è la legge sul ripristino della natura che, per il comparto agricolo, chiedeva di portare dall’attuale 4% fino al 10% la superficie di terreno da non coltivare entro il 2030 (ma era a discrezione degli Stati indicare la percentuale). Lo scopo è favorire la riproduzione della fauna e degli insetti impollinatori (api, coleotteri, vespe), per garantire la crescita delle colture. Per gli agricoltori il provvedimento metteva invece a rischio la produttività dell’Ue. A novembre il provvedimento è stato stralciato. Sempre a novembre il Parlamento Ue ha rigettato il regolamento che puntava a dimezzare l’uso dei pesticidi entro il 2030, a favore di metodi alternativi. Una misura necessaria a proteggere la fertilità dei terreni, la salute dei coltivatori e la salubrità dei prodotti, ma gli agricoltori l’hanno contestata in tutte le sedi, e il 6 febbraio la presidente della Commissione Ue von der Leyen ne ha annunciato il ritiro.
Mercosur e cereali ucraini
L’intesa tra la Ue e i principali Paesi sudamericani sugli accordi di libero scambio (Mercosur) è da sempre nel mirino del mondo agricolo europeo. Pochi giorni fa la Commissione ha ammesso che non ci sono le condizioni per chiudere la trattativa. Poi c’è la questione dei cereali ucraini diretti in Africa. Chiuso il porto di Odessa è stato aperto un corridoio di transito via terra, ma i container si fermano sui mercati polacchi, ungheresi, francesi, italiani. Basso costo e abbondanza di prodotto fanno calare i prezzi a danno dei coltivatori di cereali, ma a vantaggio degli allevatori che comprano il mangime a poco. Il 31 gennaio l’Ue ha introdotto un meccanismo di salvaguardia rafforzata sulle importazioni dall’Ucraina di prodotti a dazio zero, ed è previsto un «freno di emergenza» anche per il pollame, uova e zucchero.
La burocrazia della Pac
La Politica agricola comune (Pac) nel corso degli anni ha subito molti cambiamenti, ma la svolta cruciale è del 2023: per l’erogazione dei fondi occorre una maggiore attenzione alla questione climatica, anche perché gli agricoltori sono i primi a pagarne le conseguenze. Oggi la Pac vale un terzo del bilancio dell’Ue: per il periodo 2021-2027 si tratta di 386,6 miliardi più 8 dalla Next Generation Eu per aiutare le zone rurali a realizzare la transizione verde. All’Italia ne andranno 37, alla Francia 64, alla Germania 42, alla Spagna 45. Per ottenere questi fondi occorre rispettare le condizionalità, fra cui l’uso di fitofarmaci e terreni a riposo, ma la burocrazia è troppo lunga e gravosa. Critica accolta: entro il 26 febbraio si discuterà la semplificazione. È anche stato congelato per un altro anno l’obbligo di mettere a riposo almeno il 4% delle superfici coltivate.
Richieste nazionali
Ci sono poi le proteste contro i governi nazionali. In Germania è stato lo stop al «diesel calmierato» per i trattori (su cui il governo ha fatto una parziale marcia indietro). In Francia non vogliono gli aumenti delle imposte sul gasolio agricolo e sanzioni alle imprese che non rispettano la legge che regola il guadagno degli agricoltori nei confronti della grande distribuzione (Gdo), e niente accordo con il Mercosur. Il nuovo premier Attal ha promesso dieci misure con effetto immediato. In Olanda il malcontento è dovuto al piano di abbattimento dei capi di allevamento del 30% per ridurre le emissioni. In Belgio i contadini valloni chiedono l’adeguamento all’inflazione e la compensazione economica per tutti i vincoli.
In Italia
Gli agricoltori italiani, oltre alle questioni che riguardano le politiche Ue, in gran parte superate, chiedono prezzi più giusti all’origine. L’ortofrutta per esempio quando arriva sullo scaffale del supermercato ha avuto un ricarico del 300% rispetto alla miseria pagata al produttore. Questo succede perché fra l’agricoltore e la Gdo c’è in mezzo una lunga filiera: l’intermediario, il grossista, il trasportatore, l’imballaggio. Per ridurla i produttori dovrebbero essere meno frammentati e aggregarsi fra loro, conquistando così maggior potere contrattuale. Lo hanno fatto i piccoli coltivatori di mele della Val di Non: si sono consorziati e il prezzo di vendita alla Gdo lo decidono loro. Altro discorso sono le aste al ribasso: la Gdo decide il prezzo iniziale, e chi fa il ribasso maggiore entra sullo scaffale. Una pratica sleale stoppata da una nuova direttiva europea, ma che andrebbe potenziata. Un altro tema caldo sono i fondi Pac destinati ai campi coltivati: devono essere assegnati equamente. In Italia invece un ettaro di terreno seminato in Sicilia riceve meno fondi rispetto a quello della Lombardia. Ma dare più al Sud vuol dire togliere al Nord, che non ne vuole sapere. Infine il coro che da ogni parte si leva: «Tasse troppo alte». Vediamo.
L’Irpef
Le imprese agricole individuali e a conduzione familiare hanno sempre pagato l’Irpef sui redditi dominicali e agrari definiti dal catasto in base alla superficie e al tipo di coltura dichiarata. Nel 2016 il governo Renzi, con la legge n. 232 decide l’esenzione totale dell’Irpef. Prorogata poi dai governi successivi fino al 31 dicembre 2023. A partire da quest’anno il governo Meloni ha deciso di non prorogare, scatenando la rabbia degli agricoltori. Ma quanto pesa sulle loro tasche? Dalla relazione tecnica alla Legge di bilancio 2022 sappiamo che un anno di esenzione Irpef e addizionali regionali e comunali valgono 140,7 milioni di euro. Considerando che dai dati Istat le imprese agricole individuali e a conduzione familiare sono 1.059.204, vuol dire che in media dovrebbero pagare di tasse ognuna all’anno 132,9 euro. Dal loro punto di vista sono troppi. E infatti la premier ci ha ripensato. In tutti i Paesi Ue gli agricoltori pagano le tasse in base ai redditi reali.
Cresce il reddito agricolo
A partire dal 2013 il reddito medio per agricoltore nella Ue è cresciuto. Nel 2021, secondo i dati della Rica (Rete d’informazione contabile agricola), ammontava a 28.800 euro. Dentro c’è un 10% con un reddito superiore a 61.500 euro, e un 10% che fatica a pareggiare le spese. Tra i Paesi Ue ci sono differenze significative: Danimarca, Germania, Olanda e Francia settentrionale vantano i redditi per lavoratore più elevati, mentre Romania, Slovenia, Croazia e Polonia sono più bassi. Per quel che riguarda l’Italia la media arriva a 36 mila, con le regioni del Nord a quota 40 mila.
Nel periodo 2014-2023 Bruxelles ha stanziato 2,5 miliardi per aiutare i produttori di frutta e verdura colpiti dal divieto russo sulle importazioni Ue, per stabilizzare il mercato lattiero-caseario, per sostenere il settore vitivinicolo, per gli agricoltori di 22 Paesi che hanno visto aumentare i costi di produzione e subito eventi meteorologici estremi. Insomma le ragioni del malcontento sono tante e complesse, ma ci sono anche verità inconfutabili: il settore agricolo è messo sotto pressione dai cambiamenti climatici. L’agricoltura è responsabile dell’11% delle emissioni di CO2 dell’Ue, e partecipare alla transizione verde è nel suo stesso interesse. La politica dovrebbe mettere in campo le competenze migliori per trovare soluzioni praticabili. Lo ha riconosciuto anche la presidente von der Leyen: «Per andare avanti sono necessari più dialogo e un approccio diverso». Poi però tutti devono fare la loro parte e non dire solo dei «no».