la Repubblica, 10 febbraio 2024
Il nuovo Umanesimo di Edgar Morin
Siamo in moltissimi, anche se dispersi, a sopportare con sempre maggiore difficoltà l’egemonia del profitto, del denaro, del calcolo (statistico, di crescita, pil, sondaggi), che ignora i nostri veri bisogni come le nostre legittime aspirazioni a una vita, al tempo stesso, autonoma e comunitaria.
Siamo moltissimi, ma separati e divisi in compartimenti, a desiderare che la trinità “Libertà, Uguaglianza, Fraternità” diventi la nostra norma di vita personale e sociale e non la maschera che copre l’aumento delle servitù, delle disuguaglianze e degli egoismi. Negli ultimi decenni, con l’egemonia dell’economia liberale globalizzata, il profitto è cresciuto oltre misura a detrimento delle solidarietà e delle convivenze; le conquiste sociali sono state in parte annullate; la vita urbana si è degradata; i prodotti hanno perso la loro qualità (obsolescenza programmata, ossia vizi nascosti); gli alimenti hanno perso le loro virtù: sapore e gusto.
Certo, moltissime oasi di vita amorosa, familiare, fraterna, amicale, solidale, ludica testimoniano la resistenza del voler vivere bene. La civiltà dell’interesse e del calcolo non potrà mai annientarle. Ma queste oasi sono ancora troppo disperse e senza legami tra loro.
Tuttavia si sviluppano, e la loro connessione abbozza il profilo di un’altra civiltà possibile.
La coscienza ecologica, nata dalla scienza che porta lo stesso nome, ci indica la necessità di sviluppare non solo le fonti di energia pulite e di eliminare progressivamente le altre, compresa la nucleare così pericolosa, ma anche di devolvere una parte importante dell’economia alla pulizia delle città inquinate e alla sanità dell’agricoltura, riducendo di conseguenza l’agricoltura e gli allevamenti industrializzati – a favore dell’agricoltura da fattoria e della agroecologia. Un formidabile rilancio dell’economia fatto in questo senso, stimolato dagli sviluppi di un’economia sociale e solidale, consentirebbe un notevole riassorbimento della disoccupazione oltre a una sensibile riduzione della precarietà del lavoro.
Una riforma delle condizioni lavorative sarebbe necessaria anche in nome di quella redditività che oggi produce la meccanizzazione dei comportamenti, fino alla robotizzazione, il burn-out, le malattie e la disoccupazione – il che diminuisce proprio la redditività tanto ricercata. Di fatto, la redditività può essere ottenuta non con la robotizzazione dei comportamenti ma con il pieno impiego della personalità e della responsabilità dei lavoratori. La riforma dello Stato deve essere pensata non come una riduzione o un aumento dei parametri di produttività, bensì come una sburocratizzazione, ossia una comunicazione tracompartimenti, iniziative e costanti interazioni tra i livelli direttivi e quelli esecutivi.
La riforma del consumo sarebbe d’importanza capitale. Permetterebbe una selezione consapevole dei prodotti secondo le loro qualità reali e non quelle immaginarie vantate dalla pubblicità o dagli influencer, portando così a una diminuzione delle intossicazioni consumistiche (tra cui quella automobilistica o alimentare). Sarebbero allora il gusto, il sapore, l’estetica a orientare i consumi, i quali, sviluppandosi, ridurrebbero l’agricoltura industrializzata, il consumo insipido e malsano e, con ciò, il dominio del profitto. Lo sviluppo delle filiere corte, soprattutto per l’alimentazione, attraverso i mercati e le associazioni, favorirebbe la nostra salute e frenerebbe l’egemonia delle grandi aree e dei prodotti ultralavorati. D’altraparte, la resistenza contro i prodotti a obsolescenza programmata (automobili, frigoriferi, computer, cellulari, calze ecc.) favorirebbe un neoartigianato. L’incoraggiamento dei commerci di prossimità umanizzerebbe poi, considerevolmente, le nostre città. Il che farebbe, al tempo stesso, regredire quella formidabile forza tecno- economica che spinge all’anonimato, all’assenza di relazioni cordiali con gli altri, spesso all’interno di un medesimo edificio. I consumatori, ossia l’insieme dei cittadini, hanno anche acquisito un potere che, in mancanza di un affidamento reciproco, risulta loro invisibile, ma che, una volta chiarito e reso a sua volta illuminante, potrebbe determinare non solo un nuovo orientamento dell’economia (industria, agricoltura, distribuzione), ma indicare possibili vie verso una crescente convivialità.
Un nuovo processo di civilizzazione tenderebbe a restaurare forme di solidarietà locali o a istituirne di nuove – come la creazione di case della solidarietà nelle piccole città o nei quartieri delle grandi città. Stimolerebbe la convivialità, bisogno umano primario, che inibisce la vita razionalizzata, cronometrata, votata all’efficienza.
Possiamo ritrovare le virtù del ben vivere attraverso la strada di una riforma esistenziale.
Dobbiamo riconquistare un tempo adeguato ai nostri ritmi, che ubbidisca solo parzialmente alla pressione cronometrica. Potremmo alternare periodi (snervanti) di velocità a periodi (sereni) di lentezza. Ritroviamo il gusto di una vita resa poetica dalla festa e dalla comunione nelle arti, nel teatro, nel cinema, nella danza. Al di là della sfera della vita quotidiana, aspiriamo a far parte del mondo, prendiamo coscienza della nostra appartenenza all’umanità, oggi interdipendente. Crediamo, come già diceva Montaigne nel XVI secolo, che “ogni uomo è mio compatriota” e che l’umanesimo si dà in quanto rispetto di ogni essere umano. Le nostre patrie, ognuna singolarmente, fanno parte della comunità umana. I problemi e i pericoli vitali conseguenti alla globalizzazione legano ormai tutti gli esseri umani in una comunità di destino. Dobbiamo riconoscere la nostra patria terrena (che ha fatto di noi dei figli della Terra), la nostra patria terrestre (che integra le nostre diverse patrie), la nostra cittadinanza terrena (che riconosce la nostra responsabilità nel destino terrestre). Ciascuno di noi è un momento, una particella della gigantesca e incredibile avventura dell’Homo sapiens-demens. Questa avventura, iniziata con la nascita, la grandezza e la caduta di imperi e civiltà, ha avuto la meglio in un divenire in cui tutto ciò che sembrava impossibile è diventato possibile, nel peggio come nel meglio. Un umanesimo approfondito e rigenerato è necessario se vogliamo anche riumanizzare e rigenerare i nostri Paesi, i nostri continenti, il nostro pianeta.
La globalizzazione, con le sue possibilità e soprattutto i suoi pericoli, ha creato una comunità di destino per tutti gli umani. Dobbiamo affrontare, tutti, il degrado ecologico, la proliferazione delle armi di distruzione di massa, l’egemonia della finanza sui nostri Stati e i nostri destini, il crescere di fanatismi ciechi, il ritorno della guerra in Europa. Paradossalmente, proprio nel momento in cui si dovrebbe prendere coscienza in modo solidale della comunità di destino di tutti i Terrestri, sotto l’effetto della crisi planetaria e le angosce che suscita, ci si rifugia ovunque nei particolarismi etnici, nazionali, religiosi. Chiamiamo ognuno alla presa di coscienza necessaria e aspiriamo alla sua generalizzazione affinché i grandi problemi siano trattati finalmente su scala planetaria.