Corriere della Sera, 10 febbraio 2024
I primi aumenti non bastano il caro vita ci costerà il 6% in busta paga
«Un qualche recupero del potere d’acquisto dei salari, dopo le perdite subite, è fisiologico e potrà sostenere l’economia», dice il governatore della Banca d’Italia Fabio Panetta. La buona notizia è che questo recupero è iniziato, in Europa e anche in Italia: il 2024 sarà il primo anno, dopo tre di erosione, in cui la crescita delle buste paga supererà quella dei prezzi. Il problema è che durante la super inflazione l’impoverimento delle retribuzioni italiane, già ferme da decenni, è stato tra i più gravi delle economie avanzate. E la strada verso un pieno recupero, che in altre economie dell’eurozona già si intravvede, da noi appare tutt’altro che scontato: per la grande quantità di contratti scaduti, per le tensioni sui rinnovi in questa fase di stagnazione, per i cronici ritardi della produttività. Così nel 2026, hanno stimato gli economisti di Prometeia, i salari reali italiani potrebbero uscire dall’ondata inflattiva più bassi del 6%. Confermando e anzi accentuando la divergenza dal resto d’Europa, cioè il progressivo impoverimento dei lavoratori italiani.
La timida inversione
Il conto della mazzata è nella differenza tra buste paga e inflazione degli ultimi tre anni. Nel 2021 le retribuzioni in Italia sono cresciute dello 0,6%, contro l’1,9 dei prezzi; nel 2022 del 3,6%, contro l’8,1 dei prezzi; nel 2023 del 3,1% contro il 5,6 dei prezzi. La perdita è la più decisa tra i Paesi Ocse, ha scritto l’Organizzazione, stimandola dal pre-pandemia al marzo dello scorso anno – dunque ancora in modo parziale – al 7,5%. Nella coda del 2023 il brusco rallentamento dell’inflazione ha riportato il differenziale a favore dei salari. Ma l’inversione è stata molto meno decisa che nel resto d’Europa, dove le buste paga hanno galoppato, in media oltre il 5%. E anche se la dinamica dei salari italiani potrebbe rafforzarsi quest’anno, ipotizza Bankitalia nel suo ultimo bollettino, lo “spread” con l’Europa resterà.
I contratti appesi
Uno dei motivi è il limbo dei contratti collettivi, che in assenza di salario minimo restano l’unica trincea delle retribuzioni. Nonostante recenti rinnovi generosi, come quello dei bancari, e l’anticipo sul futuro rinnovo per i dipendenti pubblici, alla fine dello scorso anno oltre metà dei dipendenti italiani restava coperto da un accordo scaduto, in media da due anni e mezzo, dunque con livelli retributivi che fotografano il mondo di prima. «Nel 2024 si riprenderà una curva salariale superiore a quella dell’inflazione, ma il problema è quanto si è perso finora», dice Maurizio Del Conte, professore di Dirittodel Lavoro all’Università Bocconi.
Proprio il nodo del pieno “recupero”, chiesto dai sindacati, renderà molto difficili le trattative di chimici e metalmeccanici, accordi in scadenza nei prossimi mesi che oggi prevedono meccanismi di adeguamento “ex post”. E tiene in stallo le trattative dei decisivi e arci-scaduti contratti del terziario, come commercio e turismo, che meccanismidi questo tipo non li prevedono e dove oltre 3 milioni di lavoratori hanno percepito solo indennità di “vacanza”. «Qui la situazione è complessa – continua Del Conte – le imprese non sono molto disponibili a fare concessioni in questa fase, a loro va bene tenere i contratti fermi».
Sacrificare i margini
Perché l’economia italiana ora è ferma, e tale resterà almeno fino a metà dell’anno. La convinzione della Banca centrale europea è che dopo aver difeso i margini durante la fase di inflazione, a differenza dei loro lavoratori, le imprese abbiano spazio per aumentare i salari (senza alzare i prezzi, cosa che preme ai banchieri centrali). Panetta aggiunge che questo sosterrebbe anche consumi e Pil, cosa che interessa anche alle aziende. Ma che questa “redistribuzione” dei costi dell’inflazione avvenga nei fatti, è tutto da vedere. Anche perché dopo aver assunto molto le aziende si trovano ad affrontare questi mesi di stagnazione con costi più alti.
Più ottimista rispetto alle previsioni di Prometeia, Del Conte dice che con i prossimi rinnovi ci si potrebbe anche avvicinare a un pieno recupero dell’inflazione per i lavoratori. Ma anche se questo avvenisse resterebbe «la divergenza strutturale dei salari italiani con quelli degli altri Paesi d’Europa che hanno puntato su attività valore aggiunto, aumentato produttività e redditività». Magari non impoverimento in senso assoluto, ma comunque relativo. Per crescere, ha detto anche Panetta, bisogna «stimolare gli investimenti in innovazione e produttività». La vera inversione di tendenza dei salari italiani passa da lì.
Il salvagente del lavoro
Con le buste paga erose, quello che negli ultimi mesi ha tenuto in piedi i conti di molte famiglie italiane, soprattutto le più povere, è stato il boom dell’occupazione. Solo nel 2023 sono stati creati 456 mila nuovi posti di lavoro, per lo più a tempo indeterminato, portando il numero di occupati a livelli record: per molti nuclei questo ha significato uno stipendio in più. La grande domanda di manodopera, spesso difficile da trovare, è una tendenza che ha riguardato tutta Europa, ma che a differenza degli altri Paesi – e degli Stati Uniti – in Italia non sembra aver aumentato più di tanto il potere contrattuale e salariale di chi il lavoro lo offre.
Il fatto che gli occupati siano saliti più del Pil, e più delle ore lavorate, suggerisce che si tratti di un’occupazione in molti casi “povera”, in settori poco produttivi come costruzioni e turismo, o in ogni caso ad alta incidenza di part-time. E l’altra cattiva notizia è che con l’economia ferma questo salvagente potrebbe anche sgonfiarsi: è possibile che le difficoltà nel reperire lavoratori abbiano spinto le imprese a «trattenerli oltre il loro fabbisogno», ha detto Panetta. Avvertendo che se la debolezza proseguisse «potrebbero dover ridurre in maniera significativa gli organici».