Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2024  febbraio 10 Sabato calendario

La sorte avversa degli «italofoni»

Giunto alla fine di questo libro di Mila Orlic (Identità di confine, Storia dell’Istria e degli istriani dal 1943 ad oggi, Viella, pp. 212, e 24) il lettore è indotto a una conclusione: che in Istria di italiani non ce ne sono mai stati. Nell’Istria del 1943, infatti, stando al testo c’era una popolazione croata, c’era una popolazione slovena, ma non una popolazione italiana. C’erano al più degli «italofoni», come ogni volta li chiama l’autrice. Al pari di molti storici à la page, Orlic è innamorata della «complessità» e in effetti la situazione dell’Istria del 1943-1947 complessa lo era davvero, e lei ce lo spiega molto bene in tutti gli aspetti. Anche se a semplificarla a suo modo, aggiungiamo noi, ci pensava il potere comunista – troppo spesso, anzi quasi sempre in queste pagine definito «popolare» – e, c’era, come scrive la stessa autrice, la paura della violenza, della «caccia all’uomo» e del «clima di arbitrio e di terrore di cui chiunque poteva cadere vittima». Be’, vittima chiunque proprio no, ci sembra: che si trattasse soprattutto degli «italofoni»?
È un mattone di 594 pagine ma a suo modo intrigante questo di Enrico Deaglio (C’era una volta in Italia. Gli anni Sessanta, Feltrinelli, pp. 608, e 35): un’interminabile cavalcata dalla morte di Fausto Coppi il 2 gennaio 1960 ai funerali di Pinelli il 21 dicembre del 1969, una megantologia di centinaia di scritti i più vari tratti dalle cronache del decennio fatale che per l’Italia fu quello della modernizzazione e per la Prima Repubblica anche il tempo della perdita dell’innocenza. Un libro più che da leggere da piluccare, utile al ricordo dell’episodio uscito di mente per quelli che c’erano e per quelli che invece, beati loro, ancora non c’erano, utile a farsi un’idea del passato, a scoprirlo grazie a un saggio, a una cronaca esemplare, magari al brano di un romanzo. Va da sé che il tutto è doverosamente «di sinistra», pensato in quell’ottica lì, con quella selezione d’interessi lì (ma molto aperta al nazional-popolare: insomma Freda e la mafia, ma anche Nada e Gigi Meroni), e utilizzando una memorialistica al 90 per cento anch’essa «democratica»: del resto che colpa ha Enrico Deaglio se una Camilla Cederna di destra allora non c’era?
Nel discorso pubblico nostrano la ricostruzione documentata del passato, cioè il lavoro degli storici, non conta molto. Vuoi perché si legge poco, vuoi perché alla fine sui giornali e in tv vince sempre quella versione del passato che di volta in volta fa comodo alla faziosità nazionale: una versione magari priva di fondamento, falsa, ma che a forza di essere ripetuta diventa senso comune, pur essendo in realtà niente altro che un mito. Tipo quello secondo cui la mafia avrebbe avuto chissà quale parte di rilievo nello sbarco degli americani in Sicilia. Un’autentica balla. Politicamente ghiottissima – mettendo insieme lotta alla mafia e antiamericanismo – ma sempre una balla; come mostra per l’appunto quest’ottimo libretto di Salvatore Lupo (Il mito del grande complotto, Donzelli, pp. 112, e 16). Ma come aveva già mostrato qualche anno fa un bel saggio di Elena Aga Rossi, inspiegabilmente qui neppure citato nella pur oceanica bibliografia dove trova posto perfino uno scritto del Gruppo Abele.