Corriere della Sera, 10 febbraio 2024
Sgarbi s’è dimesso
È arrivato a Palazzo Chigi nel ruolo di sottosegretario alla Cultura. È uscito «facendo Sgarbi e felice di esserlo», ha detto lui con la sua immancabile irruenza. Era già sera avanzata ieri quando Vittorio Sgarbi è andato nel Palazzo del governo per consegnare la sua lettera di dimissioni direttamente nelle mani della premier Giorgia Meloni. Sono stati i rilievi dell’Antitrust a far sì che Sgarbi si dimettesse. «E dimettermi è stata la soluzione migliore. Così ho evitato che fosse Giorgia Meloni a dover intervenire», ha detto lui ricordando un precedente per lui doloroso.
«Se non mi fossi dimesso io, la presidente del Consiglio sarebbe stata costretta a revocarmi. Non volevo che succedesse questo, ho il ricordo di quello che accadde con Silvio Berlusconi: era mio fratello eppure mi ha revocato dall’incarico di governo». E Meloni sembrava davvero intenzionata a farlo: la mozione contro Sgarbi a Montecitorio era stata fissata per mercoledì e lei voleva che la questione fosse risolta prima di questa data.
L’ex sottosegretario nega però che sia stato un incontro teso, quello di ieri sera. Anzi, lo descrive come cordiale. E soprattutto lungo: «Siamo stati un’ora e mezza a parlare. Di tutto, a tutto campo. Un incontro cordiale, che ha chiarito le cose. In realtà Giorgia Meloni aveva capito bene la mia situazione prima che mi spiegassi io. Anche lei ha detto: se vuoi fare Sgarbi non puoi fare il sottosegretario al tempo stesso».
«Fare Sgarbi» ormai è diventato un modo dire. Per descrivere un uomo abituato ad occuparsi di mille cose contemporaneamente, certo. Ma soprattutto il critico ha accumulato diciannove cariche istituzionali, la maggior parte nel campo della Cultura. Ma quello dell’Antitrust resta per lui «un paradosso»: «La stessa autorità garante mi aveva riconosciuto la compatibilità delle mie diciannove cariche con quella di sottosegretario. Invece poi con l’ultimo documento di condanna ha affermato il contrario. Non posso fare convegni, presentazioni di libri, eventi vari. Eppure queste cose le fanno molti altri membri del governo».
Con quegli eventi Sgarbi dice di aver guadagnato «tra i 150 e i 200 mila euro», un centinaio di migliaia in più quelli che risultano al garante. Ma lui è convinto: «Non è stato un problema di soldi, non conta come discriminante per la mia condanna».
Adesso il problema di Sgarbi è capire come reagire all’Antitrust. Si è dimesso, lo ha fatto di slancio e lo ha fatto in maniera irrevocabile. Soltanto dopo ha realizzato che queste sue dimissioni comportano che un eventuale ricorso al Tar difficilmente verrebbe accolto. «Non c’è un interesse da difendere», spiega lui aiutato dal suo legale.
Ma l’interesse di Sgarbi è poter avere ragione. Dice: «A un simile provvedimento dell’Antitrust sono due i ricorsi che si possono fare: al Tar e al presidente della Repubblica. Tutte e due le strade non si possono percorrere». Alla fine lui sembra non avere dubbi: «Farò un ricorso al presidente della Repubblica, un ricorso simbolico per un torto subito». Anche se nella maggioranza, adesso, l’obiettivo è smorzare le polemiche.