Robinson, 9 febbraio 2024
Cacciari e l’operaismo
Tra la fine del 2022 e il 2023 sono scomparse tre figure di spicco della sinistra. Di una sinistra radicale e conflittuale che le cronache politiche e culturali hanno registrato sotto la voce operaismo.Prima Alberto Asor Rosa, poi Mario Tronti e infine Toni Negri. Personaggi diversi, con storie intellettuali non collimanti che Massimo Cacciari accorpa in quella famiglia che a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta ha provato a rileggere Marx tentando, in qualche modo, di andare oltre. Cacciari ha fatto parte di quella famiglia. Era poco più che diciottenne quando partecipò alle prime riunioni diQuaderni Rossi, la rivista fondata nel 1961 da Raniero Panzieri. Nel 1964 la prima scissione, che portò alla nascita di Classe operaia. Da un’ulteriore rottura prese vita nel 1968Contropiano. Anni dopo, ma siamo già agli inizi degli Ottanta, sarebbero usciti, come un canto del cigno, Il centauro eLaboratorio politico. Fine di quella lunga e travagliata storia intellettuale. Per chi non ne condivise il percorso e gli obiettivi fu semplicemente una storia di fallimenti di una sinistra velleitaria e conflittuale; per qualcun altro si aprì un periodo dove teoria e prassi, volontà del cambiamento e condizioni materiali hanno camminato insieme. Oggi mi trovo a parlare con Cacciari di quella lunga stagione funestata dalla violenza ma anche ricca di suggestioni teoriche e culturali.Sono qui da te non per commemorare ma per capire cosa è stata la stagione dell’operaismo, oggi che di operai sembra essercene sempre meno.«La parola “operaismo” l’ho sempre lasciata fuori dal mio vocabolario. Non vuole dire niente. È stata una vulgata. Parlerei di “forze produttive”, di “potenzemateriali e intellettuali”. Le parole contano».Come contano i nomi, i tuoi amici che non ci sono più: Alberto, Mario, Toni. Cosa provi?«Tristezza. E se vuoi ai nomi che hai fatto aggiungerei quelli di Umberto Coldagelli e Aris Accornero. Ma non vorrei fosse un “amarcord”, un come eravamo. Ossia quell’esercizio della nostalgia che rischierebbe il patetico».Eravate famiglia, e in che senso?«Come fossimo fratelli legati da un’avventura politica e culturale».Fratelli anche in conflitto tra loro.«La frattura più grossa ci fu con Negri. Ma prima di arrivarci va detto che la nostra consapevolezza teorica del momento storico che si attraversava non aveva paragoni con gli altri gruppi».In quel periodo si discuteva molto del Marx scienziato distinto dal Marx profeta.«Se ne discuteva in una chiave antihegeliana».Il marxista Galvano Della Volpe parlò di Marx come del “Galilei del mondo morale”.«Per noi non era quella la direzione. Più che Il Capitale, che risentiva di un certo positivismo, privilegiavamo iGrundrisse: un testo che poteva coesistere con la crisi dei fondamenti che il Novecento aveva portato alla luce. E al tempo stesso ci servivamo di un’interpretazione del leninismo fuori dall’ortodossia stalinista».Molti dei temi a cui accenni si ritrovano in “Operai e capitale” di Tronti, il suo libro più celebre, che uscì nel 1966 e segnò fortemente quella stagione teorica.«Un libro importante, certo, che metteva al centro la questione se il marxismo fosse ideologia o dovesse, come Tronti riteneva, sviluppare ed esercitare il punto di vista scientifico. Una scienza non neutrale ma di parte, capace di promuovere il processo trasformativo della società».Chi era il depositario di questa scienza di parte?«Il soggetto capace di trasformare tutto questo era la classe operaia, intesa non solo come mera esperienza di fabbrica ma estesa ai gangli vitali della società. A questa altezza la spinta epistemologica promossa, almeno in parte, dalla lettura dei Grundrisse si saldava con quella politica riconducibile a Lenin. Oltretutto,Operai e capitale aveva come antecedente nobileStoria e coscienza di classe.Quel libro giovanile, che in seguito Lukács avrebbe rigettato, poneva al centro l’importanza del soggetto nella Storia.«Per noi il soggetto del cambiamento non poteva però essere solo la classe operaia – di qui, ripeto, il mio rifiuto della parola operaismo perché riduttiva – ma andava esteso alle forze produttive in generale, a quel cervello sociale capace di esprimere il punto di vista scientifico».Nel senso?«Un’organizzazione intellettuale in grado con il lavoro teorico di ricomprendere la prassi dentro la fabbrica e nella società».In poche parole, un partito.«Sarebbe stato prematuro, sapendo oltretutto che uno dei punti di discussione più delicati era il rapporto con il Pci».Tra voi non c’era sul partito comunista una visione condivisa. Tu ad esempio come vedevi il problema?«Io, ma soprattutto Asor Rosa e Tronti, vedevamo nel Pci il soggetto che negli anni Cinquanta e Sessanta si era dimostrato indispensabile per lo sviluppo italiano. Con la crisi industriale degli anni Settanta cambia lo scenario. La composizione sociale che aveva partecipato alla trasformazione del Paese viene marginalizzata. Il Pci da forza modernizzante diventa forza conservatrice. Ma in quegli anni sembrava possibile un dialogo. Asor Rosa e Tronti tornarono a fare politica nel Pci. Io stesso mi illudevo che ci fossero le condizioni per un cambio di rotta. La rivistaContropiano, il cui primo numero uscì nel luglio 1968, aveva anche lo scopo di alzare lo scontro teorico, consapevoli con molto anticipo che il modello di sviluppo capitalistico si stava riorganizzando».Al neoliberismo, che si delinea già nei ’70 anni Settanta, il Pci risponde con il compromesso storico.«Scegliendo di mettersi preventivamente d’accordo con la democrazia cristiana, il partito comunista assunse il compromesso come rimozione del conflitto. Il risultato fu un accordo di sistema senza nessuna reale strategia».Non pensi che la società italiana si stesse sempre più indebolendo per l’alta conflittualità che andava avanti da un quindicennio?«Il rischio c’era e non c’è dubbio che anche alla luce della situazione internazionale – soprattutto con il colpo di Stato in Cile, e quella nazionale con l’azione terroristica delle Br culminata con la morte di Aldo Moro – un accordo andasse cercato: ma non a priori, semmai come il risultato di un confronto sul paese reale e su quale tipo di governabilità realizzare».Ritieni che il Pci non fosse all’altezza del compito?«Il problema del Pci, da un lato, era la sua debolezza culturale, altro che egemonia! Dall’altro, non coglieva la profonda trasformazione dei rapporti di produzione: in poco meno di vent’anni si erano ridimensionati i grandi poli industriali: uno scenario che io, Tronti e Asor Rosa percepimmo chiaramente.Chi lo descrisse con lucidità fu Toni Negri».Ma i vostri rapporti con Negri si erano praticamente rotti proprio sul Pci.«Considerava il Pci il partito per antonomasia del “sorvegliare e punire”».C’entrava la vicenda del “7 aprile”?«L’idea che Negri fosse il capo delle Br era assurda, ma tutto il “teorema Calogero” fu una follia giuridica. Nel merito rilasciai allora per Repubblica un’intervista a Enrico Filippini. Il giorno dopo molti deputati del Pci alla Camera non mi salutarono. Per dirti il clima».Ma tu, Tronti e Asor Rosa ritenevate il Pci un soggetto dal quale non poter prescindere.«Il nostro entrismo, soprattutto quello di Alberto e Mario, non ha funzionato. Ancor meno ha avuto efficacia il delirio movimentista da cui Toni non è mai riuscito a prendere le distanze. Il suo limite è aver abbracciato l’irrealismo politico. Non so quante lettere ci siamo scambiati su questo».Mai un dubbio?«No. Capiva perfettamente la disarticolazione e il declino dell’operaio sociale per poi attribuire all’improbabile figura della “moltitudine”, il ruolo di soggetto della rivoluzione. Neanche fosse la nuova classe operaia. Guai a non essere realisti. A non arretrare quando è il momento di farlo».In una lontana conversazione con Tronti, lui si definì sconfitto ma non vinto.«In effetti una vittoria non è mai definitiva».Disse che ormai si viveva in un tempo senza epoca.«L’epoca è quella dei grandi cambiamenti, delle rivoluzioni. Ma anche nella sconfitta la politica è necessaria. Mario non poteva cessare di occuparsene e nonostante tutto per lui pensarla era farla, sapendo che nel Pci c’era il suo popolo».Che cosa resta di quella stagione?«Una coerenza etica e qualche libro che ha segnato un momento importante del pensiero politico e filosofico. Oltre al citato Operai e capitale, alcuni scritti filosofici di Negri, in particolare su Spinoza, e poi certi saggi di Asor Rosa, tra cui Scrittori e popolo,libro che ruppe sul lato letterario con la tradizione storicista del Pci».A proposito di antistoricismo, è del 1976 “Krisis” percorso da Nietzsche a Wittgenstein attraverso il pensiero negativo. Come il libro di Asor Rosa dieci anni prima, anche il tuo venne criticato in seno al Pci.«Accettarlo avrebbe obbligato a fare i conti con il gramscismo e lo storicismo, con l’idea insostenibile che alla fine fosse possibile armonizzare la realtà, in una specie di sintesi dialettica».Si vide nel “pensiero negativo” una concessione all’irrazionalismo.«In realtà era tutt’altro, dal momento che la mia critica assumeva come imprescindibili gli esitiscientifici della crisi dei fondamenti. Fu, tra gli altri, Ernst Mach a prendere le distanze dalla meccanica classica newtoniana. Tutto l’impianto deterministico saltò per aria. Allora che fare? Molti tra gli intellettuali comunisti restarono fedeli all’ortodossia di Lukács, quello per intenderci de La distruzione della ragione, ribadendo una concezione deterministica del conflitto di classe».L’anno in cui pubblichi “Krisis” è anche l’anno in cui per “Rinascita” compare un tuo lungo articolo su Heidegger. Anche in quell’occasione ci fu grande malumore nel partito.«Heidegger era appena morto. A sinistra il dibattito pro o contro di lui si incentrava sulla questione dell’adesione al nazismo. Certamente criticabile, ma non si poteva ridurre la sua portata filosofica a quell’episodio, per quanto grave.Provocatoriamente forzai la lettura di Heidegger sostenendo che anche i comunisti avrebbero dovuto prendere atto di ciò che diceva di Marx».In molti nel Pci presero le distanze dall’articolo.Vattimo, che comunista non era, polemizzò contro la tua forzatura.«Tieni conto che tra le cose più importanti scritte su Marx c’era il libro di Gentile. Heidegger andava un po’ in quella direzione. Ma a posteriori riconosco che Vattimo ebbe ragione nel criticare quella forzatura».A proposito di Gentile, hai sostenuto che il suo libro su Marx fu un punto di riferimento per Tronti.«È così, un Gentile mescolato a Ugo Spirito di cui Tronti fu allievo».In odore di attualismo.«Che rinviava al rapporto teoria-prassi, un nesso che ha caratterizzato tutta la nostra civiltà occidentale e che oggi non riesco nemmeno più a immaginare.Non si può più immaginare che quanto stai pensando si possa realizzare. E questo ha indebolito anche la macchina desiderante».La crisi di questo rapporto ha portato, sul filo dell’autobiografia letteraria, Asor Rosa ai romanzi, Negri a privilegiare l’ideologia della rivoluzione e Tronti a scoprire il pensiero escatologico.«Si è consumato quel fallimento di cui si diceva prima. Dal momento che l’azione politica non era più percepibile nella sua concretezza, perché si frantuma il nesso teoria prassi, Mario scoprì la dimensione escatologica. La stessa rivoluzione divenne anamnesi, ai suoi occhi il rivoluzionario era impropriamente colui che ricorda e vuole risarcire tutte le sconfitte del passato. Procede avanti ma con gli occhi rivolti alle catastrofi subite. C’era l’Angelo di Benjamin che volava leggero e apocalittico sulla sua ultima riflessione».