Tuttolibri, 9 febbraio 2024
L’omelette di Julia Child
Quattordici pagine per la ricetta di un’omelette? Neanche ChatGPT – notoriamente prolissa quanto a competenze culinarie – saprebbe far di peggio. Che c’è da dire su una frittatina? Si sbattono due uova, si condiscono un po’, si friggono e via. Sì, ma quale olio, quale padella, quale condimento, quali uova? e, soprattutto, come sbatterle? o ancora: come tenere la padella? come dev’essere la fiamma? che durata ha la frittura? quale il colore finale della pietanza? quante varianti sono possibili? Eccetera.Il fatto è che, quando si traduce la cultura gastronomica di un paese in quella di un altro, le cose da spiegare sono più del previsto, soprattutto se il primo di questi territori è la Francia, dove la cucina è considerata una forma superlativa d’arte, mentre il secondo gli Stati Uniti, patria del fast food, dove il cibo è carburante anonimo insaporito (quando va bene) da mille fatui piacerini. L’impresa è titanica, e bisogna partire, se non da zero, quasi. Come aveva ben chiaro Julia Child – che tale impresa ha tentato e ha vinto nel celeberrimo Mastering the Art of French Cooking (del 1961) -, prima ancora di descrivere le singole ricette occorre dare a esse un senso, cioè un valore, un significato generale. Soltanto passando per un’interpretazione complessiva della cucina, per una comprensione del suo radicamento antropologico, può essere possibile – secondo questo mito del discorso gastronomico che è stata la Child (la cui cucina televisiva, va ricordato, sta oggi allo Smithsonian di Washington) – metterla in pratica, preparando i suoi piatti, adoperando la sua strumentazione, maneggiando i suoi ingredienti, assumendo la giusta posa del corpo ai fornelli…In quelle quattordici pagine, allora, c’è un’omelette che è un mondo. E in quel mezzo minuto occorrente per friggerla, c’è condensata un’esperienza di secoli, che un americano medio (soprattutto se degli anni 60) deve imparare contestualmente. In un contesto che è sapere e sapore, ma anche e soprattutto tecnica, manualità, intuito fisico. Più rapido è il tempo di cottura, più arduo è addestrare il corpo a metterci del suo, un corpo che è dunque, come qualsiasi gastronomia ben sa, anche e soprattutto un simulacro culturale.L’obiettivo di Julia Child consisteva nell’insegnare agli americani a cucinare quella che secondo lei (ma in ricca compagnia) era la migliore gastronomia mondiale. Cosa che comportava, prima ancora, insegnare loro a mangiare, ad apprezzare il fatto stesso di farlo, a gestire quel misterioso fenomeno soggettivo-oggettivo che è il gusto. Da qui i mille dettagli in cui il libro (che ha dovuto inspiegabilmente attendere più di sessant’anni fa per esser tradotto dalle nostre parti) si dilunga, la descrizione delle materie prime, delle tecniche e degli strumenti da adoperare, i suggerimenti sui contorni, i consigli sugli abbinamenti col vino, non senza un ricco apparato di disegni che illustrano tutto questo.Un espediente grafico (imitatissimo) partecipa attivamente a questa peripezia didattica. Piuttosto che dare prima gli ingredienti pesati e dopo la lista delle operazioni, come accade nel format millenario delle ricette, qui la pagina è divisa in due: a destra ci stanno le operazioni, a sinistra le sostanze e gli strumenti che entrano in gioco al momento opportuno, ossia quando ogni singola operazione va eseguita. Ne viene fuori una specie di teatro culinario, con tanti personaggi che si incontrano in medias res e tante conseguenti avventure che si inanellano. Ogni ricetta, in fondo, è una storia, dove azioni e passioni mirano alla realizzazione di un preciso obiettivo, sullo sfondo di un desiderio comune, alla ricerca di oggetto da costruire con cura, delicatezza, maestria.Ma una traduzione, si sa, non è mai fedele, né potrebbe esserlo. Passando da una lingua all’altra, o da una gastronomia a un’altra, qualcosa si perde e qualcos’altro, a volte, si guadagna. «Traduttore traditore» si dice (con espressione intraducibile!) nella nostra lingua. Così, a leggere oggi questo capolavoro della letteratura gastronomica del Novecento, ci si accorge che Julia Child (genialmente interpretata da Meryl Streep nel bel film Julie & Julia) aveva visto lungo. Cucinare, diceva, è dedizione e impegno. Ma è soprattutto divertimento: senza gioco, svago, curiosità infantile, nessuna omelette riuscirà ovale, liscia, soffice e dorata comme il faut. È così che l’arte francese diviene spasso americano. Julia Child, statunitense fino all’osso e innamorata del Cordon Bleu, ha inventato, forse predetto ciò che oggi facciamo, grembiule al collo, in candida souplesse: stiamo ai fornelli per giocare, mica per necessità. Rivoluzione antropologica non da poco, che solo l’inventrice della tv culinaria avrebbe potuto ideare.