Tuttolibri, 9 febbraio 2024
Su Dolores Prato
Le cose di cui Dolores Prato è sempre stata certa erano poche, forti e molto complicate. Era certa di saper scrivere, di essere una scrittrice, di quanta fatica e grazia servissero per far coincidere le due cose. Più di tutto, però, era certa, avendone avuto le prove per tutta la vita, di essere destinata all’abbandono. Sta in questa consapevolezza la ragione profonda per la quale mandava lettere tanto accorate e buffe, vispe, tragicomiche, a editori, giornalisti, direttori, scrittori, organizzatori di premi, e chiunque potesse darle una mano a pubblicare, scrivere, essere vista e letta, che per lei significava essere accettata. La prego, mi veda. La prego, mi legga. La prego, si ricordi di me. «Sono quell’essere ridicolo che vinse l’ultimo premio Stradanova. Ridicoli, chi più chi meno, agli occhi degli altri lo siamo tutti, ma in quell’epoca, sconvolta da un dolore pazzesco, io lo ero in maniera totale», scrive ad Aldo Palazzeschi nel 1972, quando gli manda Scottature, il suo secondo libro, il più breve (meno di 100 pagine), l’unico non incompiuto, in cui racconta l’inizio dell’età adulta, il momento in cui, dal convento in cui è stata allevata, comincia ad affacciarsi fuori: scopre il mare e l’amicizia, riceve una proposta di matrimonio (per interposta persona) e la rifiuta (sebbene le consentirebbe di andare a vivere in America), scopre che sua madre è morta, scopre di avere una sorella, la cerca, la trova e poco dopo averla conosciuta, smette di chiamarla sorella: per lei diventa “la figlia di mia madre”. Le scottature sono i segni che lascia l’incontro con il mondo fuori dal convento: è un nome deciso dalle suore per incentivare le ragazze a restare dentro, dove non ci si brucia, e la vita non è pericolo ma mistero. Prato pubblica questo libro a 75 anni. E, incontinente com’è, fluviale nel manifestarsi e proporsi, lo manda a Palazzeschi insieme a una rosa di peltro e a quella lettera. Quodlibet, che da anni ripubblica i libri di Prato, e anche i suoi frammenti (un’infinità: lei scriveva ovunque, sempre), ha inserito quella lettera, insieme a diverse altre, nell’ultima edizione di Scottature, in libreria dal 7 febbraio. E in quelle lettere c’è, di Prato, il dramma centrale della sua vita: proporsi, presentarsi, spiegare quello che sapeva fare, dirlo con allerta affinché non venisse sottovalutato (e non verrà mai sottovalutato, ma accadrà qualcosa di peggiore: la letteratura di Prato verrà riconosciuta e, però, sempre tralasciata), affinché venisse visto. «Io sento i luoghi più della persona umana», scrive in una lettera di presentazione per un annuario, nel 1960. Ed è vero: Dolores Prato ha scritto tutta la vita di strade, città, scale, borghi, case, arredi, perché delle persone le importavano le impronte, i solchi, l’esterno e non l’interno, quello che si vede e non si guarda, quello che s’avverte e non s’indaga. Perché le persone la abbandonavano. Il primo a farlo era stato suo padre, un avvocato di Roma che aveva deciso di non riconoscerla, e poi sua madre, che l’aveva portata a Treia, un piccolo borgo delle Marche, da suo fratello, un prete di provincia, e gliel’aveva messa tra le braccia ed era andata via. Dolores aveva tre anni. Le tracce di quei due abbandoni, la loro crucialità, sono in Giù la piazza non c’è nessuno, il suo romanzo, pubblicato con molti tagli da Einaudi (a tagliare era stata Natalia Ginzburg e lei ne aveva sofferto enormemente), quando lei era quasi novantenne (morì poco dopo, e non seppe mai che qualcuno si sarebbe preso la briga di pubblicare quel romanzo per intero, e per diversi anni dopo, cercando di evidenziare quanto fosse importante, fino a un innamoramento della Francia, per lei, qualche anno fa). Immaginatela, questa signora con addosso una vita di rifiuti e lettere innumerevoli per evitarli, in fondo per chiederne conto, fino quasi al ricatto, che si decide a scrivere della sua infanzia, e comincia dicendo: «Sono nata sotto un tavolino». E non perché fosse stata partorita in una cucina, ma perché il suo primo ricordo è questo: lei, treenne o poco più, rannicchiata, nascosta sotto un tavolino, al centro di una stanza nella quale due adulti stanno parlando di lei, e stanno dicendo che in quella casa, in quel paesino, in quella regione, lei non ci può stare, ci morirà. Lei non ha che loro al mondo e loro non sanno cosa farsene di lei. Quel momento la segna tanto che scrive di essere nata allora, mentre qualcuno diceva che bisognava mandarla via. Lo ribadisce spesso: nessuno sa cosa farsene di me. In tutto Giù la piazza non c’è nessuno c’è questa bambina di troppo, imprevista, imprendibile, alla quale non s’assegnano che scarti. Ed è così anche in Educandato, il libro in cui Prato racconta l’adolescenza dalle suore, dove lo zio la manda a crescere. «Io, che non avevo una famiglia nel mondo, ero una specie di terra di nessuno: da una parte del confine c’era un vecchio zio prete e dall’altra le monache, che consolidavano una specie di diritto acquisito per l’uso, non conteso da nessuno, che avevano posto su di me».Dolores Prato ha scritto per scrivere. Ha raccontato la scrittura. Ha descritto il mondo sul quale ha amato camminare, ha cercato di infilarlo tutto, in ogni dettaglio, perché a niente avrebbe mai fatto lo sgarbo che lei ha subito per tutta la vita: venire visto e tralasciato. Ha dato attenzione a tutto. Nessuno, come lei, ha scritto la propria storia per ritrarre il mondo intorno ed essere il paesaggio. Tutta la sua letteratura – qui sta la sua unicità – è un’autobiografia senza protagonista, un quadro fatto di sfondi. Ha ceduto a se stessa soltanto quando ha chiesto aiuto per poter fare la scrittrice, terrorizzata com’era che anche la letteratura si sbarazzasse di lei perché non sapeva cosa farsene delle sue parole. Nelle lettere, allora, si spiegava, e però poi diventava un’autrice degli anni Zero: ricattatoria, intensa, talvolta infantile. Perdeva pudore e mai coraggio.S’oppose sempre ai fascisti, anche quella volta che avrebbero potuto assicurarle un futuro e un posto nelle antologie. Dall’ambizione non si fece scottare mai.