Corriere della Sera, 9 febbraio 2024
Foibe istriane, la tragedia indicibile
Nel 1992, quando Carlo Sgorlon pubblica La foiba grande, le vicende del confine nordorientale sono ancora una storia negata: di foibe e di esodo si parla a Trieste e nelle comunità di profughi istriani e dalmati sparsi in Italia, ma non nei manuali di scuola, non nei corsi universitari, non nel dibattito pubblico. Chi azzarda qualche riferimento è immediatamente sospettato di nostalgie fasciste. L’atteggiamento cambia nel corso degli anni successivi: nel 1996 Gianfranco Fini e Luciano Violante «sdoganano» le foibe in un pubblico dibattito all’università di Trieste, gravido di polemiche ma anche di aperture: da lì si sviluppa un confronto che porta il Parlamento, nel 2004, a votare a larghissima maggioranza la legge per l’istituzione della «Giornata del Ricordo» delle vittime delle foibe e dell’esodo, fissata al 10 febbraio (giorno in cui, nel 1947, è stato firmato il trattato di pace che ha assegnato l’Istria alla Jugoslavia). Difficile stabilire quanto Sgorlon abbia contribuito alla maturazione di una coscienza collettiva: certo è che il suo romanzo, in cui si mescolano invenzione e storia, è uno dei tasselli che hanno permesso di ridefinire la nostra memoria nazionale e sottrarre al silenzio la tragedia che alla fine della Seconda guerra mondiale si abbatte sugli italiani della Venezia Giulia, dell’Istria e della Dalmazia.
Per comprendere il romanzo e le vicende che lo ispirano bisogna partire dal vocabolo: «foibe» è un termine del linguaggio geologico e si riferisce ad un aspetto tipico del paesaggio carsico. Esso indica le fenditure che si aprono nel fondo di una dolina o di una depressione del terreno e che l’erosione millenaria dell’acqua ha scavato nella spugna della roccia in forme gigantesche e tortuose. In queste buche, da sempre, la gente giuliana getta le cose che non servono più, carcasse di animali morti, suppellettili usate, mobili rotti: immediatamente dopo la fine della Seconda guerra mondiale, tra aprile e giugno 1945, vi sono stati gettati i cadaveri di migliaia di cittadini italiani eliminati per motivi etnico-politici dall’esercito di liberazione jugoslavo del maresciallo Tito. Il numero esatto delle vittime non è accertato: c’è chi tende a sovradimensionarli parlando di diverse decine di migliaia di cittadini inermi, e chi all’opposto li riduce a qualche centinaia di ex criminali di guerra. Dal confronto tra i tanti dati contrastanti a disposizione, si può ipotizzare la cifra di otto-diecimila persone eliminate nelle foibe o nei campi di concentramento jugoslavi.
Un ragionamento sulla tragedia degli italiani del confine nordorientale non è completo se non affronta il problema della rimozione: a fronte della gravità dei dati numerici (diecimila morti e oltre trecentomila profughi), perché per tanto tempo le vicende del confine nordorientale sono risultate «indicibili»? La risposta rinvia a tre silenzi, diversamente motivati. Il primo è un silenzio internazionale. Nel 1948, quando Stalin rompe i rapporti con la Jugoslavia e condanna la politica del maresciallo Tito con l’accusa di deviazionismo, l’Occidente comincia a guardare al governo di Belgrado come ad un interlocutore prezioso e avvia il processo di attrazione della Jugoslavia nel proprio campo: Tito, che entrerà nell’immaginario collettivo non più come comunista ma come leader dei «Paesi non allineati», sembra un’opportunità preziosa per aprire una breccia nella rigidità del blocco sovietico. La prima regola della diplomazia vuole che un interlocutore non sia messo in difficoltà con domande imbarazzanti: in questa prospettiva, viene meno l’interesse a fare chiarezza sulle migliaia di italiani scomparsi nella primavera del 1945 e sulle ragioni per cui centinaia di migliaia di giuliani abbandonano l’Istria e la Dalmazia.
Il secondo è un silenzio di partito. Il Pci di Togliatti non ha alcun interesse a parlare di una vicenda che evidenzia le contraddizioni tra la sua nuova collocazione come partito nazionale e la sua tradizionale vocazione internazionalista, con una politica estera subordinata alle strategie di Mosca. Affrontare il tema delle foibe significherebbe ricordare le ambiguità rispetto ai progetti annessionisti jugoslavi e la sostanziale subalternità del Pci alle scelte di Belgrado.
Il silenzio più forte è però legato alla ricostruzione della memoria nazionale. L’Italia esce dalla Seconda guerra mondiale come un Paese sconfitto, che ha contribuito a scatenare le ostilità accanto alla Germania e al Giappone e che è stata travolta senza appello sul campo di battaglia. La conferenza di pace di Parigi ne è la conferma e la mutilazione di territorio sul confine nordorientale è il prezzo pagato alla guerra persa. A fronte di questa realtà, la «nuova» Italia del 1945 si sforza invece di autorappresentarsi come Paese vincitore e utilizza l’esperienza della Resistenza partigiana come alibi per assolversi dalle proprie responsabilità e per cancellare in un colpo il periodo 1922-43. Si tratta di una rivisitazione in chiave assolutoria che giova alla classe dirigente antifascista, perché attraverso la delegittimazione del fascismo (cui si attribuisce la colpa esclusiva della guerra perduta) essa legittima se stessa come unica rappresentante della nazione; nel contempo, si tratta di una operazione che evita di fare i conti con il passato e di domandarsi chi e quanti sono stati «corresponsabili» delle scelte del regime.
In questa prospettiva nascono i silenzi, le negazioni, le pagine indicibili della storia: «indicibili» sono i prigionieri di guerra, immagine vivente della sconfitta; «indicibili» sono i presunti criminali di guerra italiani; «indicibile» è la politica di occupazione del 1940-43, quando il Regio esercito ha combattuto accanto al nazismo; «indicibili», soprattutto, sono le foibe e l’esodo, perché nessun Paese vincitore subisce, dopo la fine della guerra, il ridimensionamento del proprio territorio, né la strage di migliaia di cittadini, né la fuga di centinaia di migliaia di altri. Gli infoibati e i profughi escono così per decenni dalla coscienza collettiva della nazione, per sopravvivere solo in quella regionale della Venezia Giulia o in quella privata delle famiglie dei profughi.