il Giornale, 9 febbraio 2024
Il macchinista del tempo
Il primo racconto di Herbert George Wells è datato 1884, quando lui aveva 18 anni. S’intitola A Family Elopement (Una fuga di famiglia) ed è un acerbo bozzetto di costume. Il secondo, A Talk with Gryllotalpa, del febbraio 1887, è già un Wells, possiamo dire con il senno di poi, cioè una narrazione che si proietta nel futuro portandosi dietro il bagaglio dell’evoluzionismo darwiniano, fonte a cui il giovane H.G. si era abbeverato a sazietà. Il terzo, A Tale of the Twentieth Century, viene pubblicato tre mesi dopo, e qui il passo in avanti, come indica il titolo, è molto più corto.
E adesso, colpo di scena, ecco la quarta, molto importante short story del Nostro, A Vision of the Past, del giugno 1887, per la prima volta tradotta in italiano (Visioni del passato), come le altre presenti nella raccolta Cronache dall’altrove (Mattioli 1885, pagg. 170, euro 10, traduzione e postfazione a cura di Francesca Cosi e Alessandra Repossi, da oggi nelle librerie). Colpo di scena innanzi tutto perché qui siamo, appunto, nel passato, e poi perché l’evoluzionismo non è più una ferrea teoria, e l’antropocentrismo diventa il fragile complesso di superiorità dell’uomo nei confronti delle altre specie.
Vediamo. Un uomo, l’io narrante, stanco per una lunga camminata in campagna sotto il sole di luglio, si sdraia accanto a un pino. Si addormenta. E sogna. «Mi parve di essere trasportato in tutta fretta in una scena che cambiava rapidamente e sentii una voce come una folata di vento nella foresta dire: Vieni nel passato – nel passato». Il paesaggio è cambiato, ha tutta l’aria di uno scenario preistorico, e l’uomo vede alcuni giganteschi anfibi con tre occhi, guidati dal capobranco, che si ristorano in un laghetto. Poi il leader si mette a fare una concione filosofica: «Nel corso di tutte le lunghe ere a venire continueremo a vivere su questa terra, mentre gli esseri inferiori scompaiono e vengono sostituiti. Questo mondo sarà nostro per sempre e per sempre dobbiamo progredire verso la perfezione infinita». Al che l’uomo ribatte al bestione rivendicando la superiorità della sua, di specie, e quasi con le stesse parole. «Ma a quel punto mi resi conto che il mio discorso non piaceva al mio pubblico e che le creature avevano iniziato a muoversi lentamente in modo da convergere su di me». Quando ormai il poveretto è sicuro di morire sbranato, si sveglia. Morale: caro Homo sapiens sapiens, abbassa la cresta che non hai, perché al tuo posto, in cima alla piramide della fauna terrestre, avrebbero potuto esserci quegli esseri disgustosi...
Tuttavia, alzare la cresta non soltanto nei confronti degli altri viventi, ma anche nei confronti dei propri stessi limiti, per poi restare con un palmo di naso, scioccato dall’inspiegabilità di alcuni fenomeni, è il carattere distintivo dell’uomo. Questo ci dicono i primi sette dei dieci racconti di Wells qui riuniti. Premesso che già nell’88 (il 19 ottobre, specifica il suo biografo russo Julij Kagarlickij) il ragazzo volava alto nel suo intervento pubblico intitolato «Is there life on the planets?» (primo germe di La guerra dei mondi, uscito dieci anni dopo), diamo la parola alle curatrici: «In quella fase pare che, da un lato, fosse fortemente attratto dal mistero, ma al tempo stesso, dall’altro, non volesse fermarsi alle spiegazioni soprannaturali: ognuno di questi racconti è sotteso dal tentativo di districare la concatenazione logica di cause ed effetti che hanno prodotto la situazione misteriosa
fino a chiarirla riportandola su un piano razionale».
Il secondo racconto, Walcote, uscito fra il 1888 e l’89, è un giallo di ambientazione gotica che ricorda certe atmosfere di Edgar Allan Poe. È apparentemente la voce di un fantasma a rivelare il colpevole di un delitto a un anno esatto di distanza. Ma, sommando lo stato di eccitazione dell’assassino e la presenza sulla scena del crimine del pappagallo della vittima, si arriva alla conclusione razionale. Altro giallo, ma questa volta affine al metodo sherlockiano, è L’impronta digitale (1894), dove un incendio che sembra causato da un incidente si rivela doloso grazie all’acume di un professore di chimica. La cosa al numero 7 (1894) parte come racconto dell’orrore, perché ci porta in una casa che alcuni ragazzi pensano infestata da creature mostruose, e si conclude in modo quasi banale, per gli effetti di un cortocircuito. L’essenza di Wayde (1895) non ha nulla di materiale, è tutto mentale, essendo imperniato sulla forza della suggestione: un giovane insicuro e sbertucciato da tutti diventa un uomo di successo, anche politico, grazie a una sorta di pozione magica rifilatagli da un signore; peccato che quest’ultimo abbia... inventato l’acqua calda, anzi fredda, sotto forma di banale effetto placebo, rivelandolo per giunta, diciotto anni dopo, al truffato. L’illusione è protagonista anche in La presenza accanto al caminetto (1897), dove un vedovo è convinto di aver ricevuto la visita della moglie defunta, ma deve arrendersi all’evidenza di un altrettanto banale gioco di luci e ombre. Terza illusione in Il doppelgänger di Mr Marshall (1897), dove lo sdoppiamento di una persona non è tale, ma un semplice scambio di persona.
E veniamo ai tre racconti novecenteschi. La prospettiva cambia. Più o meno all’inizio della Prima guerra mondiale, Wells come romanziere ha dato il meglio, inanellando un mucchio di anticipazioni su quanto poi abbiamo visto verificarsi. E nei racconti, che si diradano, non ha più, con rispetto parlando, quell’atteggiamento professorale volto a cancellare con i fatti, scientifici o tecnologici, i sogni, i timori, le speranze e le suggestioni di chi li ignora. In Gli Asini selvatici del Diavolo (1915, tratto da Boon) si prende direttamente gioco di chi crede nell’Inferno vestendo i panni del «paffuto Autore», cioè sé stesso, che incontra un fuochista-diavolo inviato (salito) sulla Terra, intesa come piano calpestabile dell’umano consesso, per riportare a casa gli Asini, nel frattempo trasformatisi in uomini... In La strana storia del giornale di Brownlow (1932) utilizza l’espediente di un fatto (questo sì) inspiegabile, cioè la consegna a un uomo, il 10 novembre 1931, di un quotidiano di esattamente quarant’anni dopo, per compiere alcuni dei suoi celebri salti in avanti (prefigurando ad esempio il Wwf e l’Onu, ma sbagliando sul drastico calo demografico...).
Infine, c’è posto anche per Dio. In Risposta a una preghiera, del 1937, l’ultimo suo racconto, se si esclude la rivisitazione, nel 1939, di Il paese dei ciechi, un anziano arcivescovo, stanco e deluso dalla vita, si rifugia nella preghiera. E Wells, l’ateo Wells, con un colpo di scena gliela combina davvero grossa. No, non dimostra al credente l’inesistenza di Dio, cosa impossibile. Fa l’esatto contrario. Amen.