La Stampa, 9 febbraio 2024
La trasgressione di Primo Levi
Nell’agosto 1966, Primo Levi trascorse quietamente a Torino, nella casa di corso Re Umberto, tre settimane importanti e un poco tormentate. Stava per pubblicare le Storie naturali, (il libro acquistabile domani con La Stampa) quando dall’Einaudi gli arrivò una letterina: «Non le nascondo tutte le mie perplessità circa la legittimazione di paternità», gli scriveva Roberto Cerati, il direttore commerciale della casa editrice, uno degli uomini più ascoltati ed autorevoli. «Se io fossi Primo Levi – aggiungeva – lo firmerei con uno pseudonimo». Era una preoccupazione squisitamente tecnica: dopo Se questo è un uomo e La tregua, si temeva che una raccolta di storie fantastiche come questa potesse disorientare il pubblico, ragion per cui ecco la soluzione “simpatica” e utile: «È ben più facile fare leva e presa sul lettore de La tregua con uno pseudonimo-fantascienza che viceversa. Del resto non sarebbe possibile vendere un Levi-fantascienza ammiccando a un Levi-Tregua. Lei ben lo capisce».
Levi capì e non capì. Resistette alla sua maniera educatissima e mite, e infine chinò il capo proponendo di firmarsi Damiano Malabaila (pseudonimo però smentito dalla presentazione nella quarta di copertina, che identifica l’autore dei racconti con chi ha firmato Se questo è un uomo e La tregua). Aveva prelevato il nome dall’insegna di un negozio torinese davanti al quale passava spesso, ma non è detto che non ci fosse nella scelta una certa malizia. Il libro, d’altra parte, giustificava ampiamente i dubbi einaudiani e forse anche quelli dell’autore, perché Levi si proponeva con una chiave (in apparenza) del tutto diversa, forse persino scandalosa. Le Storie, che raccoglievano scritti pubblicati su giornali e anche radiodrammi, erano infatti squisitamente umoristiche, divaganti, sorridenti, fantastiche – e ancora lo sono. Furono una sorpresa anche per la critica, che almeno in parte, sulle prime, le stroncò, considerandole nel migliore dei casi simpatiche stravaganze, ma in qualche caso arrivando alla scomunica. Non ebbero neppure un gran successo commerciale – anche se vinsero il Bagutta -, mentre quando vennero ripubblicate col vero nome dell’autore, nel 1979, ottennero i più ampi riconoscimenti dai lettori.
C’è al proposito una testimonianza di Ernesto Ferrero, all’epoca capo ufficio stampa Einaudi: «Siamo stati noi einaudiani – ha scritto – a chiedergli questa precauzione superflua. In realtà non avevamo capito allora quello che è diventato chiaro in seguito: che non ci sono due Levi, il memorialista e il libero narratore, ma uno soltanto in cui tutto si tiene». E Levi lo sapeva benissimo: anche se non fece resistenza e forse si divertì con la scelta dello pseudonimo (chi era la cattiva balia, in piemontese appunto baila?), dove poteva benissimo risuonare – o essere letto come tale – un messaggio subliminale per Cerati e per l’Einaudi, che già con lui di errori ne avevano fatti in passato, per esempio rifiutandogli in prima istanza Se questo è un uomo. La casa editrice mise una fascetta sull’edizione rilegata che diceva: «Fantascienza?», e lo scrittore prese infine gusto allo strano esperimento, che rivelava una vena quasi comica, certamente umoristica – come hanno peraltro notato i suoi studiosi più attenti, da Marco Belpoliti a Giovanni Tesio a Domenico Scarpa -: una comicità mai esplicita, nascosta dietro un sorriso distaccato, venato di malinconia.
Il Levi delle Storie (ma sarà anche quello de Il sistema periodico, un narratore dalla ricchissima tavolozza stilistica) al di là della fantascienza immagina scenari futuribili – spesso tedeschi – di un avvenire piuttosto insensato inteso come evoluzione di quanto osserviamo nel presente. Insensato, ma ricco di humour (a volte nero): come nel radiodramma La bella addormentata del frigo, dove in una Berlino del ventiduesimo secolo una spigliata ragazza, ibernata nel 1975 e conservata nello speciale frigorifero di una famiglia borghese, finalmente evade – abbindolando un giovanotto – durante uno dei periodici risvegli che le consentono ore o persino qualche giorno di vita nel mondo di volta in volta nuovo e sconosciuto. Oppure immagina un poeta che compone a pagamento versi per tutte le occasioni, e con non poca spesa acquista una sensazionale novità tecnologica, il Versificatore (come dal titolo del racconto, tra Orwell e l’intelligenza artificiale a venire): grazie ad esso, anzi istruendolo con adeguati comandi, produce una serie infinita di poesie, rime e bislacche metafore: che Levi, poeta segreto ma non troppo, si diverte a inventare in una sorta di minimo canzoniere burlesco.
In una lettera a proposito del libro (pubblicata anche nella quarta di copertina della prima edizione, attribuita a Italo Calvino) lo scrittore confessa, quanto ai suoi racconti, che «nell’atto in cui li scrivo provo un vago senso di colpevolezza, come di chi commette consapevolmente una piccola trasgressione». Ci si è interrogati a lungo che cosa intendesse per trasgressione: diremmo la consapevole violazione di un tabù, perché proprio lui che aveva descritto l’orrore, non poteva viverlo come una condanna. Le Storie naturali hanno del resto come esergo alcune frasi dell’amatissimo Rabelais, che nel Gargantua e Pantagruel è molto chiaro al proposito: «Si ne le croyez, je ne m’en souci» (Se non ci credi, non mi interessa). —