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 2024  febbraio 09 Venerdì calendario

Filosofia è partecipazione


A parte l’uno orizzontale, ciò che il Museo della Filosofia alla Statale di Milano propone, nelle nuove sale dedicate a Complottismo, fake news e altre trappole mentali merita, di questi tempi, parecchia attenzione. Devo però prima qualche parola di spiegazione. Anzitutto, che cosa può mai essere un museo della filosofia? La polverosa esposizione di busti di filosofi antichi? Una collezione preziosa di prime edizioni di libri di filosofia introvabili? Un repertorio di reliquie, che so: pipa e panciotto di Bertrand Russell, un crine del cavallo che Nietzsche abbracciò a Torino, quando diede di matto, oppure la penna che l’odioso signor Krug chiedeva a Hegel di dedurre dal suo onnicomprensivo sistema di logica? Forse. Ma nel caso dell’iniziativa presa dall’Università degli Studi Milano si scommette su altro: su didattica, interattività, utilità. Perché è vero che per Aristotele la filosofia è la scienza più inutile di tutte (ma superiore ad essa nessuna), però è vero anche che c’è una tradizione di pensiero per la quale la filosofia altro che se può essere utile, può essere persino indispensabile al consorzio della civiltà.
Con ciò non è da pensare che dovremmo diventare tutti filosofi, ovviamente. Per il momento, basterà fare un giro al museo, soprattutto se si ritiene che il sistema dell’infosfera, come lo si chiama oggi, abbia un bisogno costante di manutenzione. Allora cosa c’entra l’uno orizzontale? C’entra perché tra le cose con cui potrete cimentarvi, nelle due sale del museo, c’è un cruciverba: non vanta la settimana enigmistica innumerevoli tentativi di imitazione? Qui potrete trovare la “Settimana complottista”, che all’uno orizzontale recita: «Occorrerebbe attivarla per limitare la circolazione delle bufale. Ma a chi affidare il compito?». Sette lettere, la parola è: censura, ma se va bene per completare lo schema di parole crociate non credo proprio che sia la soluzione per migliorare la qualità dell’informazione. Non è neppure nella tradizione illuministica milanese alla quale l’iniziativa del museo può riconnettersi. E soprattutto non è nei pannelli illustrativi, che spiegano: la censura avrebbe probabilmente un’efficacia assai alta, ma una legittimità assai bassa. Così si vede il problema: strategie migliori, pienamente giustificabili in democrazia, sono la verifica delle notizie, il controllo delle fonti, l’attendibilità dei siti, la pluralità delle voci, ma quanto possono essere efficaci?
Girate la testa, guardate verso la parete opposta, vi troverete le voci di esperti delle più varie discipline impegnati a smontare i meccanismi cognitivi e sociali che spiegano la circolazione di bufale, la diffusione ostinate di credenze che sfidano non solo la razionalità ma persino il buon senso. Non c’è solo il filosofo: c’è lo psicologo, lo storico, il sociologo, l’economista, il massmediologo, l’informatico, l’ingegnere, l’analista politico. Perché attecchiscono? Perché non c’è verso di estirparle? Come mai non c’è un diserbante in grado di liberare lo spazio pubblico dalle cattive erbacce? Per lo più, la soluzione viene cercata nella testa delle persone – vedi ad esempio il pannello dedicato ai bisogni che la coperta di Linus del complottista copre: bisogno di controllo, bisogno di certezze, bisogno di appartenenza, finanche un certo bisogno di sentirsi speciali – ma forse è altrettanto importante dare retta a James J. Gibson e non mancare mai di chiedersi non solo cosa c’è nella testa, ma anche dentro quale mondo sono quelle teste. C’è insomma un problema di ecologia dell’informazione, cioè di relazione fra la testa, la notizia e il contesto ambientale e sociale in cui la notizia viene appresa.
A proposito di contesti, in genere siamo piuttosto sconfortati per il fatto che in democrazia non possiamo sbattere fuori nessuno: non i terrapiattisti, neppure i No vax, non quelli delle scie chimiche (attualmente – mi pare – in deciso calo) e neanche quelli che la Nasa tiene nascosti gli alieni. Per essere davvero ospitali nei confronti di qualunque tesi, comprese quelle più assurde, si è finito – si dice – con l’indebolire il nostro senso della verità nel relativismo – peggio: nel nichilismo! – a cui Nietzsche avrebbe prestato la divisa: non esistono fatti, solo interpretazioni. E siccome i fatti non ci sono, ogni interpretazione è lecita.
Le cose, tuttavia, non stanno così. Basta andare a riprendere quella nozione di «fatti alternativi» che, insieme alla «post-verità» ha avuto il suo bravo quarto d’ora di celebrità, al tempo in cui Kellyanne Conway, consigliera di Donald Trump alla Casa Bianca, guerreggiò sui numeri dei partecipanti alla cerimonia di insediamento del neo-presidente (oggi ex, e domani chissà: se tornerà, forse ci sarà motivo di attrezzare nuove sale, al museo della filosofia). Fateci caso: richiamare fatti alternativi significa fare comunque appello a fatti. E non solo la zelante consigliera, ma pure il più improbabile dei complottisti non sostiene affatto che i fatti sono sempre opinabili perché la verità non esiste, dunque non sta affatto dalla parte di Nietzsche, ma più semplicemente ritiene che i fatti stanno in altro modo da come ce li raccontano, coperti come sono dalle menzogne che il potere ci racconta (oppure fabbrica). L’appello ai fatti rimane cioè per tutti, persino per il terrapiattista, il criterio ultimo della verità. Non è dunque colpa di Kant, che riteneva la realtà ultima inconoscibile, non è colpa del nichilismo di Nietzsche o del decostruzionismo di Jacques Derrida: quel che cambia è piuttosto la fiducia che nutriamo in una narrazione condivisa. Complottismo e fake news non sono anzitutto una patologia epistemica – un problema di conoscenza, una faccenda che riguardi la capacità umana di afferrare la verità – quanto il segnale di una crisi del discorso pubblico, e delle istituzioni su cui si sostiene. Si possono manipolare i fatti? Certamente si può manipolare la notizia, si possono ritoccare le foto, e alterare i dati, ma per dare a credere cosa, se non di nuovo fatti e nient’altro che fatti? Il compito del filosofo è dunque meno quello di difendere la nozione di verità – che si difende ottimamente da sé: rimane legata ai fatti, e i fatti sono ancora da tutti preferiti alle fandonie – quanto quello di ogni cittadino: contribuire alla cura della cosa pubblica, in una società aperta alla critica e alla circolazione del sapere.
Per questo conservo le mie perplessità sulla soluzione dell’uno orizzontale: la censura? Per l’enigmista della “Settimana complottista” sarebbe bello potervi far ricorso; purtroppo, però, non si può fare. In realtà, sarebbe brutto anche se si potesse fare, perché nella democrazia si crede davvero solo se si è convinti che, a lungo andare – «in the long run», diceva il pragmatista americano Charles S. Peirce – la pluralità secerne verità, non solo confusione e scetticismo. E resta, la democrazia, l’ambiente migliore per tenerci, per quanto possibile, al riparo dai due estremi che politica e ideologia frequentano da sempre: ai piani alti, l’ossessione del potere per il nemico, l’estraneo, il diverso; ai piani bassi e nei paraggi dell’uomo qualunque, la speculare paranoia di chi si raffigura il potere come un unico Sistema, un’unica grande Cospirazione. Di mezzo ci siamo noi. Di mezzo, in realtà, ci sono pure la guerra in Europa e un’altra in Medio Oriente, e le guerre portano anche, inevitabilmente, manipolazione e propaganda. Ma allora ancora di più serve avere tra le mani, oltre allo smartphone, un libro, un buon giornale, e una filosofia civile. —