La Stampa, 9 febbraio 2024
In tribunale a Budapest
inviato a Budapest
Ore 8,40, corridoio all’aula 97 del tribunale di Budapest. Qui, oggi, si celebra il processo a quattro uomini, in galera da un paio di anni, per aver ammazzato un uomo a picconate. E averlo sotterrato in un bosco.
Se la guardi soltanto da quest’aula, che è al primo piano di un palazzo ottocentesco, rutto mattoni e stucchi, nella zona non lontana dai ministeri, la giustizia ungherese ha il volto duro dell’ implacabile. Uomini in divisa blu, con giubbotto antiproiettile e mephisto nero calato sul volto, fanno la guardia agli imputati. Muscoli gonfi sotto la divisa. Immobili. Muti. E poi ci sono le catene. Ai piedi di ogni imputato, bloccate con un lucchetto. Alle mani, ancorate alle vita da un cinturone di cuoio. E infine il guinzaglio. Che non viene mai mollato da uno degli agenti con la scritta Rend?rség sulla schiena: polizia, primo reparto. Vedi tutto questo e pensi che la giustizia sia stata programmata per non concedere sconti, mai. A nessuno. Implacabile con chi sbaglia. C’è una sola nota di delicatezza in quest’aula: Beata Halasz, la giudice: che è vestita come tutti i giudici del mondo in udienza, ma ha modi molto gentili. È una dell’esercito dei giudici – ragazzini che anni fa hanno rimpolpato la schiera dei magistrati di tutto il Paese, dopo che Orban ha accelerato, con la pensione, l’uscita dai ranghi della classe di magistrati più anziana. Beata Halasz siede da sola sullo scranno. E da sola, senza neanche una giuria, deciderà le sorti dei quattro uomini in catene. Ma la strada prima di arrivare lì è ancora lunga.
Guardi questa scena e pensi a Ilaria Salis, in carcere qui da un anno. Alle catene con cui l’hanno portata davanti al giudice l’ultima volta, anche se non ha ammazzato nessuno. Anche se è una donna minuta rispetto a un paio di questi imputati. «È la regola: i detenuti vengono spostati quasi tutti così» accenna un avvocato. La regola. Che – come tutte le cose in questo Paese – si porta dietro una quantità di eccezioni. Quella che oggi fa discutere riguarda la presidente dell’Ungheria, che ha concesso la grazia ad un pedofilo. Sì, la grazia. Al vice direttore di un orfanotrofio per una complicatissima storia di abusi. Se ne discute nei corridoi del tribunale, certo. Ma è uno scandalo che non fa stracciare le vesti. Avrà ricadute? «Chi può dirlo». La giustizia da queste parti è uno dei tanti temi di cui si chiacchiera molto. Ma sempre sottovoce. E non si dice (quasi) mai nulla di ufficiale.
Più o meno alla stessa ora del processo ai quattro killer picconatori, ma al piano terreno di questo palazzo dai pavimenti in seminato e mosaico, nell’aula 36, sale sullo scranno il giudice che si è occupato dell’ultima udienza di Ilaria Salis. Niente Rend?rség, polizia, in aula. Niente agenti di custodia, con o senza mephisto. E niente catene. Eppure anche i tre imputati – che hanno la faccia da ragazzini, e modi impacciati, quando si alzano per parlare con il magistrato – sono qui perché hanno a che fare con la morte di un uomo. Li hanno arrestati un anno fa. L’accusa sostiene che volevano dare fuoco ad un parco giochi, con del liquido infiammabile. Poi avevano preso di mira un ostello. E le fiamme si erano allargate ad una casa. Un uomo, spaventato dal fuoco e dal fumo, aveva tentato di fuggire. Ma era caduto nel vuoto. Perché non hanno catene? E sono già liberi?
Eccezioni preliminari. Discussioni su una opposizione presentata degli avvocati. Il giudice sfoglia fascicoli spessi così. «È la regola. Non sono più pericolosi» assicura chi sa. Chi campa facendo lo slalom tra le norme. Quella schiera di avvocati che non si stupisce di certo di vedete nell’aula dei picconatori, sei uomini con il mephisto calato sul viso, vestiti come i corpi speciali dell’antiterrorismo, ma che scortano imputati che non sono di certo Hannibal Lecter. Sebbene siano sospettati di aver commesso un crimini orribili.
Furgoni bianchi per il trasporti dei detenuti che vanno e vengono nella strada davanti al tribunale. Telecamere puntate sugli imputati. Cambi aula e non si può entrare. «Serve l’accredito». Anche ai giornalisti? «Anche. Questo è un processo con i posti del pubblico contingentati». Perché non è così in tutte le udienze? Perché così hanno deciso i vertici del tribunale. Che, per il vero, non negano l’accesso a nessuno. Ma bisogna muoversi per tempo. Ancora folla davanti all’aula 46. Avvocati. Una donna al telefono che parla con un parente. E due giornalisti di una radio indipendente fermano tutti, al pianterreno, davanti alla 21. «Quelli sono gli imputati» e indicano tre uomini in giacca blu e camicia bianca. Che hanno fatto? «Reati finanziari». Su, alla 97, si fa pausa alle 11. Gli uomini in divisa e mephisto tengono separati gli imputati dai parenti. «Vietato avvicinarsi». All’ingresso altra gente che sale le scale verso le aule, che si disperde negli stretti corridoi dai muri dipinti di giallo di questo immenso palazzo. A maggio, qui dentro, tornerà anche Ilaria. —