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 2024  febbraio 08 Giovedì calendario

Intervista a Gianfranco Zigoni

Talento purissimo, carattere eccentrico e ribelle, Gianfranco Zigoni è stato un simbolo a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta. Di lui si tramandano le stravaganze ed è un peccato perché si perdono i valori oltre ai dribbling. Non ha rimpianti, si volta indietro sereno, il calcio è solo un ricordo e uno sport da insegnare ai bambini. «I tifosi mi vogliono ancora bene, vuol dire che mi hanno compreso – riflette -. In fondo non sono stato Riva né Maradona». Poteva esserlo, ma il destino era un altro e non ha nemmeno provato a cambiarlo.
Zigoni, da dove cominciamo?
«Da Oderzo, quartiere Marconi, il mio Bronx e la mia via Gluck. Giocavamo scalzi sull’erba, tra i vigneti dove rubavamo l’uva, oppure al campetto dell’oratorio. Il calcio era lo sport che mi piaceva meno, volevo diventare un giocatore di rugby: purtroppo Treviso era lontana 25 chilometri e a quei tempi sembravano infiniti».
Squadra del cuore?
«Quella del paese, l’Opitergina: per vederla mi infilavo in un buco nella recinzione. In Serie A l’Inter di cui mi ero innamorato ascoltando alla radio la cronaca d’un 6-0 alla Juve: Skoglund fece tre gol e diventò il mio idolo, era anche biondino come me. Poi mi era simpatico il Toro».
L’Opitergina fu anche la sua culla: la notò un osservatore della Juve.
«Si chiamava Rocco e in realtà aveva adocchiato Dall’Acqua, un mio compagno: lui però sognava l’hockey, difatti arrivò in Nazionale. “Ti mando da uno bravo” gli disse e così me lo ritrovai sotto casa».
Emozionato?
«Per nulla. Sentivo di essere il bambino più forte del mondo e sapevo che se andavo a provare al Pordenone, società satellite bianconera, mi prendevano. Volevo stare con i miei amici, così rifiutai, ma un prete che mi aveva visto giocare e non voleva sprecassi l’occasione, venne a parlare con mia mamma Stefania. Alla fine mi presentai e dopo due tocchi Rosetta mi arruolò, mi davano 6 mila lire e ne spendevo 5 per la corriera. Segnavo ogni domenica però non ero felice, mi mancava il paese e non era uno sport che amavo».
Il trasferimento a Torino non tardò.
«Peggio ancora. Due cugini che abitavano lì mi adottarono, ma non era il mio ambiente. Ero sempre giù, mi sentivo un pesce fuor d’acqua. E mica le società avevano lo psicologo come oggi. Unica cosa bella allenarmi con Sivori che per me era Dio».
Anche lui sperimentò il suo caratterino...
«Erano altri tempi, la gavetta era dura. Una volta mi chiese di portargli la valigia e io risposi: “Prendi tu la mia"».
In bianconero si presentò con le stimmate del predestinato.
«Ero convinto di essere piu forte di tutti, però non amavo il sacrificio. Per questo ho reso al 30 per cento del mio potenziale. La Juve mi mandò al Genoa in prestito e sa cosa mi disse Viani, in veneto, dopo un’amichevole con il Milan in cui avevo ubriacato Trap e fatto 3 gol? “L’unica differenza tra te e Pelè è il colore della pelle».
Bravissimo ma ribelle...
«Non ho mai sopportato le ingiustizie. Una volta il terzino dell’Huelva menava in ogni contrasto Kolbl, lui non reagiva e all’ennesimo fallo cattivo gli tirai un pugno io».
Pelè lo sfidò anche...
«In amichevole con il Santos: lo guardai anziché giocare e capii che se da piccolo ero il più forte al mondo, da grande no. Il miglior talento, però, a mio giudizio è stato Maradona. Purissimi anche quelli di Baggio, Savicevic e Cassano».
Dal Genoa tornò alla Juve.
«E vinsi subito lo scudetto. Decisiva la vittoria sulla Lazio all’ultima giornata, segnammo io e Bercellino: fu De Paoli, nel sottopasso, a informarmi che l’Inter aveva perso a Mantova ed eravamo campioni».
Dalla Juve alla Roma...
«Gente meravigliosa, ricordi bellissimi. Non avevamo pressioni né problemi, eravamo felici, Helenio Herrera era accomodante e tranquillo, ben diverso da quello dell’Inter: sarà che era innamorato della Gandolfi. A mezzanotte controllava che fossimo in camera e subito dopo scappavamo dal ritiro: ci facevamo aprire le trattorie o semplicemente tiravamo tardi in strada tra birre e sigarette. E anche qualche colpo di pistola: un mio compagno, a Frascati, una sera fece saltare tutti i lampioni».
Giura che non era lei?
«Io li ho fatti saltare a Veronello qualche anno dopo: che deficiente, non ero a posto...».
Cenava spesso nel locale di Alvaro Trinca, il ristoratore che si scoprirà coinvolto in un’organizzazione di scommesse clandestine.
«Eravamo amici, ma a me non ha mai accennato nulla. Immagino perché, conoscendomi, sapeva come avrei risposto. Non sono un santo, ma ho i miei principi».
Il calcio è pulito?
«Ho avuto sospetti, sentito voci, letto di recente confessioni. Io ho sempre seguito la mia strada. Una sola volta, già in campo, mentre correvo come un matto mi hanno detto di calmarmi che un punto era buono per tutte e due: solo un calcolo d’opportunità, eppure mi sono vergognato. Il mio calcio è un altro, non ha ombre ma gioie: è quello di Riva che fa felice un popolo».
Anche lei, in fondo...
«Quando lasciai Roma piansi, invece Verona fu una svolta positiva della mia vita. La prima immagine è una tavola in Valpolicella, dove Tavellin mi portò appena arrivato con altri due nuovi, Busatta e Luppi: davanti a una costata e un bicchiere d’Amarone pensai che quello era il mio posto. In campo, se volevo, nessuno mi fermava e io giocavo per la gente gialloblù. Il mio nome era scritto sui muri e inciso sui banchi delle chiese».
Fu decisivo nella vittoria sul Milan: la fatal Verona...
«Ultima giornata, noi già salvi, persero partita e scudetto. Il primo gol, testa di Sirena su un mio cross perfetto, fu un pugno che li stordì. Alla fine ero dispiaciuto, ho sempre rispettato gli sconfitti: potevo dare gomitate in campo, ma irrisioni e prese per il culo non mi appartenevano».
Eppure non ha mai capito chi si abbatteva per un risultato...
«No, e ho rimproverato per questo anche mio figlio che fa il calciatore. La vita non è una partita: i problemi, i guai veri sono altri».
Dei tempi del Verona resta iconica l’immagine in pelliccia e cappello da cowboy...
«Con Valcareggi c’era un precedente in azzurro: diceva che ero il migliore, ma dopo il debutto a Bucarest non mi faceva giocare, così gli dissi di non convocarmi più. Quando mi preannunciò l’esclusione lo minacciai: “Vedrai che combino...”. “Cosa vuoi fare, matto?” domandò allarmato: lo scoprì quando mi presentai agghindato in quel modo in panchina».
Il look è noto: può dirci se davvero quella pelliccia era il regalo di una donna per una notte d’amore?
«Più di una notte».
Dopo una retrocessione a tavolino, disse no all’Inter per non abbandonare i gialloblù.
«Lo avevo promesso ai tifosi, ci avevano mandato in B per una leggerezza del presidente: una di quelle ingiustizie che combatto. Ho perso 50 milioni di lire, che erano una bella cifra, ma ci sono cose che valgono di più».
Che effetto le fa essere definito il Best italiano...
«Mi fa piacere, lui è stato immenso. Ma sigarette e whisky non fanno più parte della sua vita. Non ho paura di morire, ma ho cinque nipotini che amo e voglio stare con loro il più possibile