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 2024  febbraio 08 Giovedì calendario

I poliziotti “Schindler” uccisi dai nazifascisti


Oggi a Roma vengono posate tre pietre d’inciampo per ricordare alcuni degli uomini delle forze dell’ordine che pagarono con la vita l’aiuto agli ebrei e alla Resistenza
Pietro Ermelindo Lungaro, vice brigadiere di pubblica sicurezza, imprigionato in via Tasso, ucciso alle Fosse Ardeatine il 24 marzo 1944. Giovanni Lupis, guardia di pubblica sicurezza, detenuto in via Tasso e a Regina Coeli, fucilato il 3 giugno 1944 al Forte Bravetta. Emilio Scaglia, guardia PAI (Polizia Africa Italiana) detenuto nelle carceri di via Tasso e Regina Coeli, fucilato il 3 giugno 1944 a Forte Bravetta.
Sono i nomi incisi sulle pietre di inciampo che da oggi, dopo una cerimonia solenne alla presenza, tra gli altri, del ministro dell’Interno Piantedosi, del capo della Polizia Pisani, del sindaco di Roma Gualtieri, della presidente dell’Unione delle comunità ebraiche Noemi Di Segni e dei familiari delle tre vittime, saranno apposte davanti alla sede della Questura a Roma, in via San Vitale. Come già le altre pietre d’inciampo ideate dall’artista tedesco Gunter Demnig per commemorare le vittime dei crimini del nazifascismo in tutta Europa, questi tre piccoli blocchi di pietra ricoperti di metallo lucente, con inciso un nome e una data di nascita e di morte, sono un appiglio per la memoria, un ostacolo all’oblio. In questo caso la storia che ci chiedono di non dimenticare è un capitolo poco noto dell’occupazione delle truppe del Terzo Reich in Italia, tra il 1943 e il 1945. Si tratta delle vicende degli appartenenti al corpo di polizia che si opposero alle politiche degli occupanti tedeschi e della Repubblica Sociale, mettendo in salvo oppositori politici ed ebrei perseguitati, partecipando alla guerra di Liberazione e pagando spesso con la vita il loro impegno.
Nonostante ad alcuni di loro siano già intitolate vie o caserme, nonostante le onorificenze postume, la posa delle pietre di inciampo è il gesto simbolico attraverso il quale entrano nella narrazione di quell’impresa collettiva che fu la restituzione dell’Italia alla democrazia. Un tributo che non è solo l’esito di un processo di ricostruzione memoriale in corso da tempo, ma un investimento sul futuro. Lo spiega aRepubblica Raffaele Camposano, direttore del Museo e ufficio storico della polizia di Stato presso il Ministero dell’interno, illustrando come la posa delle pietre di inciampo sia parte del progetto Senza memoria non c’è futuro; prima di quelle di Roma, dal 2021 ne sono già state posate 14 a Trieste, Aosta, Udine e Rieti, e nel corso del 2024 un’iniziativaeditoriale in due volumi, Fecero la scelta giusta, riunirà tutte le storie dei poliziotti che si opposero al nazifascismo. «Far conoscere le vicende di chi si è sacrificato al servizio della comunità serve a trasmettere ai giovani poliziotti i nostri valori», dice Camposano, ricostruendo ilprocesso che ha riportato alla luce biografie dimenticate. A fare da apripista è stato il riconoscimento, nel 1990, del titolo di Giusto tra le nazioni a Giovanni Palatucci, penultimo questore di Fiume, morto a Dachau nel 1945. Palatucci difese i soldati italiani che erano stati disarmati dai tedeschi e cercò di salvare il numero più alto possibile di ebrei. «A partire dagli anni ’90, dopo il suo riconoscimento tra i Giusti e la Medaglia d’oro al valore civile, iniziammo a chiederci se Palatucci fosse una mosca bianca o se ci fosse stata una rete più vasta di poliziotti, in vari luoghi d’Italia, che avevano agito in operazioni di salvataggio e di resistenza».
Alcuni furono scoperti e uccisi, altri dopo la guerra continuarono a fare il loro lavoro non raccontando ciò che era accaduto, perché il momento non era opportuno o perché ritenevano di aver fatto solo il proprio dovere. «Abbiamo scoperto che esistevano piccole squadre ben organizzate, sia dirette da funzionari, sia da agenti in contatto con la Resistenza» aggiunge Camposano. «Conoscevano gli orrori dei nazifascisti e non rimasero indifferenti. Dalla loro posizione per così dire privilegiata cercarono di fare quello che potevano: munendo i perseguitati di documenti falsi, lasciapassare, permessi di soggiorno, tessere annonarie, avvisando prima delle retate chi poteva essere catturato, sopprimendo carte, non facendole trovare ai tedeschi o facendole trovare in ritardo in modo che le persone avessero modo di affidarsi a reti di salvataggio».
A chi domandasse perché non ci fu un movimento corale dei poliziotti contro l’occupazione, gli storici come Campisano possono fornire una spiegazione. In primo luogo, chiarisce, «i reparti di polizia dipendevano da questori “fascistissimi”, molto zelanti nell’applicare le leggi, anche le leggi razziali». Inoltre «chi si opponeva doveva fare il doppio gioco e rischiava la vita. C’erano molte spie: spie della milizia fascista, infiltrati dalla Gestapo. Chi fu scoperto fu considerato un traditore e inviato nei lager con un regime durissimo». Ciò nonostante ci fu chi resistette. Ora possiamo dire: che il loro ricordo sia di benedizione.
È un capitolo poco noto dell’occupazione delle truppe del Terzo Reich in Italia