la Repubblica, 8 febbraio 2024
Intervista a Hans Nicolussi Caviglia
Hans Nicolussi Caviglia poteva diventare un ottimo sciatore, si sta invece rivelando come calciatore insolito, unico valdostano in A, regista in seconda della Juve e ragazzo controcorrente: provate voi a presentarvi con Guccini, Kubrik o Dostoevskij nello spogliatoio di una qualunque squadra di pallone.
Intanto, perché il doppio cognome?
«In famiglia decidemmo di aggiungere quello di mamma a quello di papà, ci sembrava bello e giusto. Ci tengo che mi chiamino con entrambi, anche perché usarne solo uno è sbagliato».
E Hans da dove viene?
«Piaceva a papà, che è di origini cimbre e appassionato di cultura germanica. Mamma è invece ligure e fa l’attrice, mentre mia sorella Mila vive in Olanda ed è ballerina di danza classica. Papà è guardaparco e sono cresciuto in un borgo della Valsavarenche, Dégioz, a 1800 metri: il mio imprinting sono i boschi, da bambino facevo le gare di sci ed ero bravino, ma poi ho scelto il calcio.
Adesso sciare non posso più, ma torno sempre a passeggiare sulle mie montagne. È un’altra aria».
Non potendo portare il 14 (è di Milik), ha scelto il numero 41: per via di Cruyff, vero?
«Mi ha sempre affascinato, ho visto tutti i video e letto tutti i libri che lo riguardano. E mia sorella mi ha fatto conoscere i suoi luoghi olandesi, sono stato più volte a vedere l’Ajax. Di lui mi ispirano le idee che hanno rivoluzionato il calcio e fissato dei canoni all’avanguardia. La sua frase che preferisco è: la creatività non fa apugni con la disciplina».
Come nasce l’erudito Nicolussi Caviglia?
«I miei mi hanno insegnato il valore della cultura prima che me ne appassionassi per conto mio.
Arricchiscono il tempo che non passi in campo e una poesia può darti un appiglio nei momenti difficili».
Cos’ha sotto mano, adesso?
«La montagna incantata di Mann, non ci metterò poco a finirlo. Poi vorrei affrontare Dostoevskij a partire dai Fratelli Karamazov. Al cinema la mia passione è Kubrik, un altro che ha trattato temi tutt’oraattualissimi: il mio preferito èBarry Lindon».
Un giovane calciatore che adora Guccini è un eretico?
«Ma no, anche ad altri piacciono i cantautori. Guccini lo ascoltavo in macchina con papà quando andavamo a sciare e me ne sono innamorato. Purtroppo non l’ho visto dal vivo, ma solo su Youtube: Cyrano, Quello che non..., Farewell, Incontro, La locomotiva sono le mie preferite.
Saranno attuali anche tra cent’anni».
Sinceramente: i suoi compagni la credono un marziano?
«No, non mi guardano strano.
Ognuno ha i suoi gusti e poi anch’io faccio le cose stupide di un ventenne, eh. Dei calciatori c’è spesso una percezione alterata, mentre tanti hanno molto da dire anche fuori dal rettangolo verde. Il calciatore che ha idee, interessi e un grado di cultura elevato, come per esempio Chiellini, è ormai sdoganato».
Pensa che diventare milionari a vent’anni tolga ai ragazzi l’interesse per la ricchezza interiore?
«Influisce, certo. Le famiglie devono insegnare che ci si può arricchire anche di cultura e conoscenza».
Riesce a fare proselitismo?
«Ho fatto ascoltare Don Chisciotte di Guccini a Kean, ma non l’ho convinto. Con altri ce la farò. In Cambiaso, per esempio, ho trovato una persona con valori uguali ai miei. Lo trascinerò al cinema e riuscirò a fargli piacere Guccini».
Kean è il suo amico del cuore, eppure siete il giorno e la notte.
«Ci conosciamo da quando avevamo otto anni, siamo legatissimi. Ci completiamo, potrei dire che lui è ilmio lato cazzaro, giocherellone.
Abbiamo un’amicizia profonda e sappiamo correggerci a vicenda. Ma lui sa da solo quando sbaglia».
Il calciatore medio è o no una persona superficiale?
«Comprendo che qualcuno è fatto e cresciuto in modo diverso, che diversi sono i valori etici e morali».
La parola che ripete più spesso è “valori”: che definizione ne dà?
«Sono i concetti che ti determinano dal punto di vista morale ed etico e che individui appena conosci una persona».
Il suo valore di calciatore si è
invece visto al debutto da titolare, contro l’Inter all’andata.
«Non me l’aspettavo, in settimana non ero stato provato: Allegri me l’ha detto il giorno della partita».
Ha avuto paura di non farcela?
«No, perché? Era l’opportunità che aspettavo».
Il primo anno di A, a Parma, lo passò a guarire.
«Mi ruppi legamenti e menisco, poi la sutura meniscale saltò e mi operarono la seconda volta. Il ginocchio però continuava a darmi fastidio e si è scoperto che mi era rimasta dentro una barretta di ancoraggio, così ho dovuto fare una terza artroscopia. È stato un modo diverso di maturare».
Da chi ha imparato di più, a livello umano?
«Come allenatore da Ciccio Grabbi, è stato un secondo papà per me e Kean. Come giocatore, a Perugia ero con Vicario e già si vedeva che aveva un livello di disciplina e una cura dei particolari che l’avrebbero portato ad altissimi livelli. Poi naturalmente c’è Chiellini: un mentore, un esempio».