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 2024  febbraio 08 Giovedì calendario

Intervista a Lina Sastri

Federico Fellini diceva che solo due cose non ha raccontato nei suoi film: gli zingari e Napoli. «Beh, io sono nata a Napoli in via degli Zingari», dice Lina Sastri con i suoi occhi così intensi, pieni di dolori e di riscatti, col suo volto da antagonista che in scena si illumina.
In quale quartiere si trova?
«San Lorenzo, quartiere popolare, semplice e povero, anche se detesto la retorica della povertà. Vicino alla stazione. Una casa piccola, non avevo la mia stanza, tutta la casa era una stanza, col grande letto dei miei genitori e quello dove, per occupare meno spazio, io dormivo a capo e mio fratello ai piedi. A San Lorenzo ho girato La casa di Ninetta che è il mio primo film da regista, andrà a marzo al Festival di Bari, l’ho anche scritto, coprodotto e ho una piccola parte. La protagonista è Ninetta, mia madre, il film è dedicato a lei».
Da Napoli andò via presto.
«A 17 anni, quando a Roma cominciai a fare l’attrice. Lavoravo, l’adolescenza non l’ho vissuta. Da piccola avevo una vocazione religiosa, forse per l’asilo e le elementari dalle suore, volevo diventare suora anch’io. Mia madre ne rideva, lei viveva con grazia e leggerezza, tutto il contrario di me. Cercavo l’assoluto nella vita, che poi ho trasferito nell’arte. Di Napoli ho ricordi mescolati, si giocava per strada, mio padre c’era e non c’era, perché si rifece una vita in Brasile, faceva il magliaro, ebbe altri due figli da una donna bianca e una nera che non ho mai visto. Noi l’abbiamo saputo dopo della seconda famiglia. Di mio padre ricordo l’assenza e il carattere difficile».
Lei non ha una famiglia rumorosa, non mangia il ragù. Ma è napoletanissima.
«Ora m’aggio imparato a fa’ il ragù... Di Napoli, superata un po’ di puzza adolescenziale sotto al naso, ho tutto quello che mi ha dato, la lingua, la mamma, la musica, la sua imprevedibilità e incostanza, la sua essenza di città di mare dove si agitano colori diversi. Non sono napoletana nel senso che da mio padre, che era di Siracusa, ho ereditato la pesantezza siciliana, che è la tragedia greca. Napoli dalla Grecia ereditò la gioia del vivere, l’abbandonarsi ai piaceri».
Però lei ha lasciato Napoli.
«Ci vado sempre più spesso. Col tempo, senza averlo deciso con logica, si tende a tornare sui propri passi. Napoli sta vivendo un Rinascimento, ci trovi la vita in movimento, un’energia che Roma non ha più. Il rischio è la svendita, ristoranti e bed&breakfast ovunque. La napolitudine. Napoli sembra Bollywood, si fa tanto cinema».
Molto belli gli incontri e la visione poetica, meno originale Napoli didascalica spiegata agli anglosassoni.
«È difficile entrare nel nostro spirito. È facile meravigliarsi. Mi è piaciuto il documentario di Turturro, che è di origini napoletane».
Lei dopo Masaniello debuttò con Eduardo.
«A Napoli, Milano e Roma, al Quirino ho ripreso Eduardo mio. Racconto ciò che ho vissuto, aneddoti, cose che mi diceva, citazioni...».
I ricordi sono importanti. È un’operazione nostalgia?
«I ricordi sono un conforto, forse un’illusione, di sicuro l’unica prova che abbiamo vissuto. In un tempo di cose fuggevoli dove tutti fanno tutto senza saperlo fare, racconto ciò che ho avuto la fortuna di vivere. La testimonianza è il trampolino per il futuro. Per Il sindaco del rione Sanità ero in quinta, non dicevo una parola, pensando di non essere vista mi presentai senza trucco pesante e bigiotteria che richiedeva il mio ruolo volgare. Eduardo mi fulminò e disse: avete portato le vostre donne con i loro bracciali, le loro collane. Mi sentii un pizzico. Fu una grande lezione: a teatro si vede tutto».
Proprio a lei...
«Mi piacerebbe fare una commedia, che è più difficile del dramma dove conta il pensiero. Lì invece c’è bisogno di essere diretti, con un ritmo preciso. Nel tempo ti liberi di qualche peso, è più facile che esca l’ironia. Ma io sono come i bambini, credono a tutto e a tutti, i bambini non sono ironici. Nel privato comunque faccio ridere. È la mia faccia che si presta al dramma. E non so perché, mi hanno sempre dato ruoli di donne più vecchie d’età. Eduardo diceva: il vecchio lo faccio subito così quando invecchio non si vede».
Eduardo alzava il sopracciglio per scovare la sofferenza e il destino del Sud. E ogni tanto, recitando, si fermava. Ecco, parliamo delle pause di De Filippo, che sono la porta verso la solitudine dove brulicano fantasmi, discorsi misteriosi. Gliele insegnò?
«Lui non insegnava, io prendevo da quello che faceva. Le sue pause venivano da pensieri segreti, nascosti dietro le parole. Una volta dovendo fare un’ubriaca cercai di imitarlo. Mi corresse così: l’ubriachezza per la donna è quando perde il proprio pudore e il rispetto di se stessa».
Con la maschera che rapporto ha?
«Complicato. Eduardo fece Pulcinella. Non è una maschera facile, non è Arlecchino. Ha qualcosa di funerario dentro, ha l’angoscia, ha l’assecondare il padrone burlandosene per sopravvivere. Ha quello che un popolo sottomesso per secoli ha dovuto imparare per avere una sua identità».
Totò le piace?
«Non amo il suo cinema, non conosco a memoria le sue battute. Mi piace la sua Preghiera per l’attore, e Pasolini che prese l’essenza della sua malinconia, mi piace la marionetta degli spettacoli con Anna Magnani».
Il suo nome è Pasqualina.
«Mi chiamano tutti Lina, chi mi vuol bene Linù. Pasqualina mi sembra il nome di una sarta. Amo le stoffe. Ho mille vestiti che metto solo in casa e mai quando esco».
Lei è stata sposata sei mesi o sette anni? Su Internet si trovano entrambe le cose.
«No, per carità... Sei mesi, con Ruben Celiberti, ballerino e cantante argentino. Non ricordo nemmeno quando ci sposammo. Litigavamo sempre. Una volta da Buenos Aires tornai il giorno dopo».
Le manca la maternità?
«Figli non he ho avuti... È stato un grande dolore. Doveva andare così».
Ballando con le stelle è stata una bella esperienza?
«Piacevole ma difficile. Era il 2020, è stato il lavoro sotto Covid. Mio fratello vi morì in quelle settimane. Non avevo pensieri liberi, convivevo col dolore. E non sono brava a fare il personaggio televisivo».
Non ha mai parlato di suo fratello.
«Carmine era più grande di me, ha fatto tante cose, era una specie di pirata. Prima di ammalarsi aprì un ristorante a Napoli, preparava piatti tradizionali, pasta e patate...Vorrei congedarmi così, con un’immagine di cibo che mi riporta al mio adorato Eduardo, il teatro dove si mangia e si sorseggia il caffè, il teatro delle cose e dei fatti»