Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2024  febbraio 08 Giovedì calendario

La vita agra di Monterossi

Milano dannata, Milano redenta, Milano umana, anzi umanissima. Il nuovo giallo di Alessandro Robecchi, Pesci piccoli, il decimo della serie con Carlo Monterossi che esce a due anni dalla precedente avventura, regala al lettore un doppio sguardo sulla città e sul presente: uno prevedibilmente ironico e disincantato (alla Monterossi, per intenderci), l’altro inaspettatamente indulgente.
La forza dei personaggi, quelli noti e quelli nuovi, mai davvero vincenti ma neppure troppo piagnoni, si misura qui con un’epica dei perdenti: protagonisti e comparse sono figure che prima di farsi vincere o proprio per sfuggire a quel destino provano tutte le strade, comprese le scorciatoie del crimine e della truffa, per restare a galla, sperando così di strappare se non una vittoria almeno un pareggio alla vita.
Una vita che è quanto mai agra e grama nel caso di Teresa, la protagonista femminile della storia, personaggio che sembra uscito da un film di Ken Loach: sveglia prima dell’alba ogni mattina, pulisce uffici e case private cercando di mettere insieme uno stipendio che le consenta di fare fronte almeno alle spese (e, ça va sans dire, nella paga non è compreso il rispetto). C’è lei, con la sua voglia di riscatto, al centro del romanzo.
La routine le pesa come una storia già scritta, fino a che inciampa – letteralmente – nella fortuna che ha la forma di un comune sacchetto della spesa. Dentro il piccolo sacco di cellophane azzurro trovato sulle scale durante un turno di pulizie alla Italiana Grandi Opere (Igo), società che «costruisce cose grosse un po’ dappertutto», c’è, tra altre cose, la classica busta piena di soldi. Come rimproverarla quando decide di tenerla, nasconderla, per provare, almeno per finta, a sognare di cambiare vita?
Carlo Monterossi è, si sa, un tipo italiano più da commedia grottesca che da lotte sociali: autore televisivo, è inventore di programmi spazzatura campioni di ascolto. Stavolta per lavoro è di malavoglia alle prese con il caso di un crocifisso, in una villetta in un borgo alla porte di Milano, Zelo Surrigone, che talvolta si illumina da solo: un miracolo da raccontare in esclusiva e possibilmente da trasmettere in diretta mentre accade. Carlo «espia» le colpe del suo successo facile provando a combinare qualcosa di buono e utile, collabora per diletto con un’agenzia investigativa di due professionisti del mestiere, l’enigmatico Falcone e l’ex poliziotta Cirrielli. Ed è proprio sullo strano furto alla società Igo e, di conseguenza, sul malloppo trovato da Teresa, che sono incaricati di indagare Monterossi e soci.
I primi quattro capitoli portano alternativamente i nomi di Teresa e Carlo: sono una sorta di ping pong tra le loro esistenze quotidiane, tribolata quella di lei, annoiata quella di lui. Le loro strade, si capisce, sono destinate a incrociarsi; li ritroviamo un centinaio di pagine dopo insieme in un capitolo intitolato programmaticamente «Carlo e Teresa» dove la storia prende una piega inaspettata: un episodio di cronaca da nera, un tentato scippo, innesca una favola rosa, quella di una Cenerentola che non solo smette di sgobbare, ma forse trova anche il suo principe.
Cambio di prospettiva
Nella città che fa crescere i vincenti, a prendersi la scena ora sono i poveri, i perdenti, i disperati
La colonna sonora che accompagna la doppia avventura di Monterossi è quella cucita su misura da Bob Dylan, citato tanto nelle vesti del poetico menestrello pop-folk di All I Really Want to Do, quanto in quelle del «millenarista, cristiano rinato, in attesa della fine del mondo» di Slow Train.
Se la dannazione di Milano ha a che fare con il suo Dna di città proiettata in avanti, capitale morale e dell’apparenza, la redenzione passa, più che da improbabili eventi miracolosi, dalle scelte e dalle azioni delle persone. Un modo di agire che, di conseguenza, alimenta il lato solidale e comprensivo, il lato umano della città e di chi la vive. L’occhio indulgente di Robecchi si stende qui sulle umane miserie come una coperta che scalda il cuore di una metropoli per antonomasia fredda, quasi una coccola che l’autore riserva ai suoi personaggi prima di ributtarli nella giungla urbana dell’indifferenza.
Nella Milano capace di far sentire spesso fuori luogo chi la abita e che alimenta il mito dei vincenti, a prendersi la scena sono stavolta i poveri – che, come scrive Alessandro Manzoni, «ci vuol poco a farli comparir birboni» (frase citata in esergo al romanzo) —, i perdenti, disperati e creduloni. Parliamo di Teresa e con lei della banda di soliti ignoti che cerca di far fruttare il tesoro trovato, a rischio di mettersi in un gioco troppo grande. Parliamo anche, seguendo altri filoni del romanzo, di condomini imbrogliati, vicine di casa rancorose, precari sfruttati, prostitute malviste, malati miracolati, ex mariti che non pagano gli alimenti e, scendendo man mano in gradini della legalità, scommettitori, delinquenti comuni, falsari, spacciatori... Sono loro i pesci piccoli del titolo. E con loro anche i poliziotti Ghezzi e Carella, guardie e ladri nello stesso banco. Costretti per mestiere a prestare ascolto ai cittadini o dare la caccia ai criminali, i due tutori dell’ordine ci fanno pure una bella figura a comportarsi verso gli uni e gli altri con comprensione e umanità: i loro siparietti, che corrono paralleli alle storie principali del furto e del miracolo, sono un bagno di vita reale, frutto di osservazione della società e dei suoi comportamenti.
Robecchi, giallista e autore televisivo (per gli spettacoli di Maurizio Crozza), setaccia gli umori cittadini e restituisce un quadro vivido che mette il lettore faccia a faccia con piccole ingiustizie, grandi disuguaglianze, forti contraddizioni di una metropoli capace tanto di accoglierti quanto poi di respingerti senza una seconda possibilità. Una città capace perfino di non riconoscere sé stessa: e il punto migliore in cui specchiarsi non può che essere la zona attorno a piazza Gae Aulenti, «la piccola Abu Dhabi che Milano si è costruita per giocare a New York».
Per fortuna restano i poveri, quelli sì facili da riconoscere: faticano a mettere assieme il pranzo con la cena, si ingegnano per tirare a campare. E talvolta girano con un sacchetto della spesa sognando di cambiare vita...