la Repubblica, 7 febbraio 2024
Cosa ci insegna un libro
Come avete studiato per l’ultimo esame universitario? La domanda sintetizza uno studio i cui risultati sono stati presentati alla Camera. L’indagine, condotta dall’Associazione Italiana Editori e da Talents Venture, società specializzata in servizi di consulenza a sostegno dell’istruzione universitaria, aveva lo scopo di indagare come è cambiato il modo di studiare di chi è iscritto all’università (non telematica). Mille studenti e studentesse, tra i 19 e i 30 anni, l’estate scorsa hanno risposto a 34 domande su come e dove studiano.
Pur consci che esistono grandi e piccole verità, grandi e piccole bugie e poi esistono le statistiche, scoprire che a più di quattro studenti su dieci sono sufficienti appunti, registrazioni, riassunti scaricati dal web e slide del docente per superare – o non superare – un esame, suggerisce domande su consistenza e solidità della nostra istruzione e della nostra cultura.
Lo studio universitario è una scelta, non rientra nell’obbligo e nel diritto-dovere allo studio, riguarda dunque più la cultura che l’istruzione, concerne più interessi, aspirazioni o intenzioni che gli strumenti di alfabetizzazione e interpretazione che la Repubblica fornisce per diritto costituzionale.
Da cosa dipende il disamore per libri, codici, monografie, Critica della ragion pura o Fisica (vol. 2)? Si potrebbe pensare al prezzo. Oltre agli affitti, manuali, il cui costo medio supera (di poco) i 35 euro, sono una difficoltà economica.
Si potrebbe far risalire la questione alla riforma Berlinguer con la quale – ormai 25 anni fa – si è passati al 3+2 cioè dalla laurea e basta, alla laurea seguita dagli aggettivi “triennale” e “specialistica” e, da lì, al sistema di crediti che ha frammentato studio monografico e corsi annuali e abituato a dispense, appunti propri o di altri, fotocopie, audio o video e disabituato al manuale.
Il manuale, il manualone, serve nei corsi di 6 crediti? E nei corsi fino a 12 crediti? Osservando i grafici nell’indagine, è evidente che più i corsi sono lunghi e complessi più il libro è uno degli strumenti di studio.
Si potrebbe riflettere sul fatto che il libro, pensato e disegnato per essere aperto e riaperto e consultato anche a distanza di mesi, forse di anni, mal si concilia con uno studio che somiglia a un gioco a tappe – spesso macabro e infatti il disagio studentesco è forte – e non a un processo in cui c’è un titolo da conseguire ma soprattutto un metodo da acquisire e con esso, si spera, consapevolezza culturale.
Si potrebbe riflettere che senza libri in comune, coi quali essere d’accordo o no, non ci si esercita e abitua ad avere e creare riferimenti comuni, direi alfabeti.
Le dispense sono tutte diverse, i video sono presi da angolazioni differenti, le registrazioni sono parziali, ognuno ha la sua, il libro è uno, ha le pagine, digitali o di carta.
Si potrebbe pensare che viviamo con dispositivi che ci distraggono, con assistenti digitali che fanno funzione di corpi e sentimenti umani e, dunque, un libro richiede troppo tempo, troppo spazio, troppa concentrazione e la gestione autonoma di tutte e tre queste cose. Oppure si potrebbe gridare che per capire ci vuole tanto tempo, che non tutto può essere semplificato o frammentato, che, anche quando si è capito, si potrebbe poi volere o dovere capire meglio.
Se i libri spaventano basta aprirli e scoprire che quello sgomento possiamo attraversarlo, ci somiglia. Non è incapacità o fragilità. Nessuno capisce niente all’inizio, poi si studia, si parla, si ascolta, ci si confronta, si osserva, si sbaglia. E certe volte non ci si capisce comunque.
E l’unica soluzione per affrontare la paura della paura di non capire è esercitare l’intenzione e il desiderio di capire. E i libri, tutti interi, aiutano ad accettare la nostra incompletezza. Non facciamoci spaventare dai libri.