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 2024  febbraio 07 Mercoledì calendario

Scrittori africani

giaba ScegoIl 2021 è stato l’anno magico della letteratura africana. L’anno in cui scrittori e scrittrici del continente hanno vinto tra i più grandi e prestigiosi premi letterari del pianeta. Ad aprire le danze, simbolicamente, è stato il Premio Nobel dato allo scrittore e accademico tanzaniano, ma da decenni di stanza in Gran Bretagna, Abdulrazak Gurnah. Nei suoi libri un mondo poco raccontato, quello delle città e delle isole dell’oceano indiano, quel mondo swahili che ha dovuto affrontare colonialismi rapaci e decolonizzazioni nebbiose. Da lì è stato uno tsunami di riconoscimenti. Il Premio Camões, il più alto della letteratura in lingua portoghese, che ha incoronato per la prima volta nella sua esistenza una donna nera, la mozambicana Pauline Chiziane, il Prix Goncourt tra i premi più importanti di Francia dato al giovanissimo senegalese Mohamed Mbougar Sarr per il suo straordinario romanzo La più recondita memoria degli uomini, il Booker Prize che ha rimesso al centro la letteratura sudafricana con la potenza delle parole di Damon Galgut. A seguire il Neustadt International Prize for Literature al romanziere e saggista senegalese Boubacar Boris Diop, il PEN Pinter Prize e il Peace Prize della Buchmesse di Francoforte alla scrittrice e filmaker dello Zimbabwe Tsitsi Dangarembga, il Booker Prize International allo scrittore senegalese David Diop per il suo Fratelli D’Anima e per concludere, last but not least, il Jhalak Prize dato a Jennifer Nansubuga Makumbi, una scrittrice ugandese con un grande senso dello stile. Autori e autrici impegnati a raccontare l’inaudito, il non detto, il margine finalmente si sono collocati al centro di un dialogo globale. Non a caso nomi come Chimamanda Ngozi Adichie, Maaza Mengiste, Nadifa Mohamed, Kalaf Epalanga, Namwali Serpell, Akwaeke Emezi, Remy Ngamije, Alain Mabanckou e tanti altri oggi fanno parte di un canone letterario che occupa gioiosamente gli scaffali delle librerie sia in Africa sia nel resto del mondo, dalla Cina all’Europa, passando per Stati Uniti e Brasile.La domanda che circola in molti luoghi del dibattito letterario, però, è se si può parlare di letteratura africana come di un corpus unico di temi, parole, storia, obbiettivi. Esiste la letteratura africana? È corretto unire 54 paesi diversi tra loro? Con lingue, storie, culture, traiettorie differenti? Ha senso mettere in un unico contenitore Lagos e Addis Abeba? Accra e il Cairo? Dakar e Nairobi? Certo che no. Agli scrittori e scrittrici del continente è chiaro di essere diversi gli uni dagli altri, ognuno con le proprie specificità storiche ed autoriali. Ma quello che fino adesso ha unito è stato un rapporto con quell’Occidente che per molto tempo in Africa è stato il colonizzatore, colui che dettava le regole. I primi scrittori Achebe, Sembene, Bethi, Nwapa, Salih, Neto vivevano infatti una contraddizione: scrivere «contro» ma allo stesso tempo «per» l’Occidente. Si scriveva «contro» per affrancare la propria voce, per raccontare le storie silenziate, per costruirsi una identità nazionale, ma paradossalmente trovando casa, pubblicazione e spesso anche pubblico proprio in quell’Occidente da cui si tentava di affrancarsi. Una lacerazione che ha accompagnato la letteratura dei vari paesi africani molto a lungo.Oggi il panorama è diverso. Le letterature dei vari paesi africani non guardano più solo all’Occidente come luogo del possibile, ma si rivolgono sempre di più al loro interno. Le case editrici, soprattutto quelle nigeriane, che un tempo dovevano aspettare che uno scrittore pubblicasse in Europa prima di riproporlo in edizione «made in Africa» solo in un secondo momento, ora hanno la prima scelta. Molti scrittori e scrittrici decidono spesso di pubblicare direttamente in Nigeria come in Kenya o Sudafrica, per cercare poi un’edizione americana, inglese, francese, tedesca. Basta scorrere i cataloghi delle nigeriane Cassava Republic Press o Okada Books o della sudafricana Kwela per rendersi conto di questo fenomeno. E come al centro c’è un doppio dialogo, uno necessario con un lettorato interno, intessuto con il proprio paese e continente, e uno che si allarga al mondo. Il lettorato autoctono oggi viene considerato di primaria importanza per gli editori e gli autori del Continente. Mentre negli anni ’60 e ’70 il lettore era solo l’europeo o lo statunitense, oggi ci si rivolge al nigeriano, al ghanese, al sudafricano, al kenyano, all’angolano. Un fenomeno che ha portato ad un boom di festival letterari. Basta ricordare tra tutti l’African Book Festival (FLAM) di Marrakech, anche quest’anno dall’8 all’11 febbraio, che raccoglie le migliori penne della letteratura in lingua francese e araba e l’Ake Arts & Book Festival uno tra gli eventi letterari più prestigiosi del globo, riuscito recentemente a mettere in dialogo due premi nobel africani come Wole Soyinka e Abdulrazak Gurnah. Una delle sue fondatrici, la scrittrice Lola Shoneyin (pubblicata in Italia da 66Thand2nd), oltre a dirigere una macchina colossale che richiama molti scrittori locali e della diaspora, si è anche lanciata recentemente in una grande operazione letteraria insieme alla scrittrice Nnedi Okorafor, una delle fondatrici del pensiero african futurism, il cui ultimo libro è salito alla ribalta delle cronache per l’anticipo milionario ricevuto. Lola Shoneyin e Nnedi Okorafor hanno in cantiere di creare Phoenix, una collana di scrittori e scrittrici che indagano la distopia, la fantascienza, il fantasy e la letteratura speculativa attraverso lenti africane. Temi non solo nuovi, ma nuovissimi. D’altronde sfogliando riviste letterarie come Jalada, Kwani?, Afreada o la giovanissima Doek!, prima rivista letteraria della Namibia, nata dall’entusiasmo di Rémy Ngamije, notiamo che i temi di questa letteratura africana che parla inglese, arabo, francese, portoghese e varie lingue locali, pur continuando nella scia dell’indagine del passato, dei torti subiti, trova sempre il modo di mettere al centro anche temi più quotidiani quali l’amore, la metropoli, la politica, il futuro, il genere. In questo senso due nomi come NoViolet Bulawayo e Akwaeke Emezi sono di fatto al centro di questa nuova Africa che non ha paura di mettersi dentro i suoi panni nuovi. NoViolet Bulawayo con Gloria (La nave di Teseo) creando una distopia africana, con agganci nemmeno troppo celati alla Fattoria degli animali di Orwell, riesce a raccontarci cosa è stato il padre padrone dello Zimbabwe Mugabe per il paese. Tutt’altro mare è invece quello dove ci fa nuotare Akwaeke Emezi. Un mondo non più eteronormato, dove si è quello che si desidera, e dove anche gli antenati e la propria storia passata è non binaria, libera, unica. Non a caso Akwaeke Emezi definisce la sua persona con il pronome «loro», e la parola Ogbanje è al centro del romanzo Acquadolce (il Saggiatore) dove ogni frontiera viene attraversata, caricandosi un’alterità radicale sulle spalle.E se Chimamanda Ngozi Adichie con il suo capolavoro Metà di un Sole Giallo (Einaudi) era riuscita a mettere al centro della scena la dimenticata guerra del Biafra, oggi le nuove voci che emergono scavano nella profondità di una spiritualità che non smette mai di accompagnare la vita moderna. Come fa Leila Aboulela, al quale la recente guerra nel suo Sudan, ha dato anche la missione di usare la letteratura come serbatoio della memoria.Una letteratura vibrante quella africana in Italia ancora poco conosciuta. Siamo passati da un tempo in cui coraggiose e piccole case editrice come Gorée e Edizioni lavoro, hanno fatto opera di pedagogia, portando in Italia autori imprescindibili, come Tsitsi Dangaregma, oggi inspiegabilmente fuori catalogo, a una sostanziale anarchia odierna dove i libri africani vengono tradotti, ma poco accompagnati. È mancato in Italia, fattore determinante all’estero, oltre alla creazione di lettorato attraverso iniziative mirate, un accompagnamento della società letteraria (critica, scrittori, ecc) a questi testi che rimangono spesso sconosciuti proprio agli addetti ai lavori. Ma come dice Leila El Houssi, docente di storia dell’Africa alla Sapienza di Roma, L’Africa ci sta di fronte (titolo anche del suo libro per Carocci) e non va ignorata. Perché lì si sta fabbricando il futuro.