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 2024  febbraio 07 Mercoledì calendario

Istriani

Quando arrivammo al campo profughi di Padriciano (Trieste), gli sloveni del Carso triestino ci insultarono. Per loro eravamo fascisti. E dire che mio padre era stato un partigiano combattente del Fronte di liberazione jugoslavo. Era il 5 maggio 1955: l’ultimo grande esodo dopo l’accordo del 1954 che restituiva Trieste all’Italia. Non abbiamo mai avuto la cosiddetta «qualifica di profughi», che garantiva alcuni vantaggi agli esodati. Il clima politico a Trieste era pessimo per noi istriani. C’era chi ci diceva: «Tornate nel paradiso di Tito!». E c’era chi ci riteneva stalinisti, comunisti tout court. Niente «qualifica» ai «rossi».
La famiglia paterna era croata. Preciso: croati bianchi. Mia nonna era cattolicissima. Buie, un grosso paese dell’entroterra istriano, era fascistissimo. Mio nonno passò più notti sul tetto della casa imbracciando la doppietta e aspettando i fascisti che ci minacciavano. Mio padre parlava croato in casa sua e dialetto istro-veneto fuori di casa. C’era una pluralità linguistica e nazionale effettiva. Petrovia, il paese di mia madre, e Materada, il paese di mio padre, distavano non più di 4 chilometri. Ebbene, parlavano italiano a Petrovia e croato a Materada.
Quando arrivò il fascismo, questo mondo andò in frantumi. Con la guerra e l’occupazione tedesca andò in rovina totale. Con l’arrivo dei cosiddetti «liberatori» jugoslavi, precipitò definitivamente. I tedeschi deportarono mio nonno paterno a Dachau, da dove non fece più ritorno. Con i tedeschi mio padre partigiano fu messo in galera a Trieste. Aveva fatto saltare il ponte di Sicciole (oggi al confine tra Slovenia e Croazia) e l’approdo di Canegra (oggi Croazia). Nel caos e nei rastrellamenti di massa attuati dai tedeschi con l’operazione «Nubifragio», la scampò per un soffio. Fu liberato con l’amnistia di Natale del 1943, ma nonno fu deportato in Germania.
Vado spesso al «parco delle rimembranze». Lungo i vialetti sotto il Castello di San Giusto a Trieste, ci sono delle pietre del Carso, bianche, in mezzo ai prati, che ricordano i caduti in guerra e i deportati. C’è anche il nome di mio nonno Marco, morto a Dachau presumibilmente nel marzo del 1945. A Materada c’è un’altra lapide che lo ricorda. L’ho trovata divelta e abbandonata. Con mio cognato provvederò a recuperarla.
La memoria è così: va in frantumi. Forse, mi chiedo, è giusto. Non si può vivere sempre con l’ossessione del passato. Certo è che mi sento spaesato, un apolide come fu definito mio padre durante il regime fascista. Né carne né pesce. Sì, perché se croato-italiano sono in linea paterna, in linea materna sono italianissimo. La famiglia di mia madre Facchin era presumibilmente di origine trentina. La nostra Istria era un «casino». Italiani, croati, sloveni, magiari... Se negli Stati Uniti il melting pot era un dato di fatto, in Istria nel XX secolo era diventato un conflitto a viso aperto.
Noi si parlava italiano a casa. Mio padre si adeguava a mia madre che era italiana. Ebbene: mia sorella Marisa era costretta ad andare alla scuola croata con l’arrivo della Jugoslavia, ma non parlava croato. Mia sorella Nadia era vessata dalle autorità jugoslave perché frequentava il liceo italiano di Capodistria. Mio padre si rifiutò di entrare nella polizia politica titina dell’Ozna. Fu messo in gattabuia. Fu processato a porte chiuse. Fu condannato a tre mesi di lavori forzati. Aveva perso suo padre a Dachau per «colpa» sua in quanto partigiano croato, adesso finiva in galera in quanto refrattario al regime comunista. Prese armi e bagagli e se ne andò come «optante» in seguito agli accordi di Londra del 1954.
Ma non finisce qui.
A Trieste si sentiva ancora una volta un apolide, un alloglotto. La vita di paese non era la vita di città. Aveva già 40 anni e a quei tempi era un uomo maturo, per non dire «vecchio». Non si adattava. Non c’era più la cantina sociale, non più le cantate (lui in paese era un «canterino»), non più i vicini di casa, le balere... qui comincia la mia personale «tortura». Ogni santa domenica mi faceva fare levatacce. Dovevamo andare in Istria ogni fine settimana. Beneficiavamo della cosiddetta Prepusnica (sloveno), Propusnica (croato) nonché Lasciapassare in italiano, che facilitava il passaggio oltre confine. Trieste era denominata Zona A, amministrata dall’Italia. Una parte dell’Istria, da Capodistria a Cittanova, era denominata Zona B, amministrata dalla Jugoslavia. Bisognerà attendere gli accordi di Osimo (1975) perché le due zone venissero definitivamente integrate nei due Stati.
Ogni domenica passavamo a Materada, Petrovia, Umago, Cittanova a far visita ai parenti rimasti in Zona B. Ora lo rimpiango. Da adulto ci vado spessissimo. Oggi è tutta Europa. Non ci sono più dogane, confini, sbarre. C’è un’autostrada che ti porta a Buie, Petrovia, Umago, Cittanova, ma io preferisco le strade secondarie. Vado, ad esempio, a Matelici che ha ancora un tratto di strada bianca. Sì, come quella che percorrevamo nel lontano 1964 con l’autovettura in prestito da mio zio Eddi.
Intanto negli anni Cinquanta correvano tempi bui. Mio padre, pur di scappare via dall’inospitale Carso sloveno, decise di venire ad abitare a Trieste. Per noi non ci fu scelta. Ci sistemammo in uno scantinato. Non esagero: c’erano i topi a farci compagnia. Lì mi ammalai e me la vidi piuttosto brutta. Avevo tre anni e la pleurite. Ma la mia «malattia» più seria resta quella dell’apolide. Non so una sola parola di croato, ma i ricordi di famiglia mi sono entrati dentro come un tarlo. Spesso lo sento scavare in piena notte.
Di noi italiani apolidi per molti anni non se n’è parlato. Abbiamo dovuto attendere il 2004 perché la Repubblica italiana ricordasse le nostre disgrazie. Il 10 febbraio fu istituito il Giorno del Ricordo, il giorno del trattato di pace firmato a Parigi nel 1947. Quella pace fu ritenuta «ingiusta», non dalla nostra Resistenza che aveva riscattato il Paese, ma dalla destra che denunciava i misfatti comunisti di Tito. Il fascismo aveva dunque avuto «ragione» ad aggredire il Regno di Jugoslavia? Ad allearsi con i nazisti? Intanto i comunisti italiani per oltre 50 anni hanno tenuti nascosti gli scheletri nell’armadio: le foibe, la repressione anti-italiana, le deportazioni.
Ricordo un nome: Stelio Spadaro di Isola d’Istria. Ex comunista fu un instancabile promotore di una necessaria revisione della coscienza politica e civile. Parlava di «memorie condivise». Non lo sorreggeva solo l’idea di democrazia, gli bruciava dentro la vergogna del silenzio.