La Lettura, 7 febbraio 2024
L’Italia in cucina
«Parla come mangi!». Il proverbio popolare non ha dubbi sul fatto che l’atto del mangiare sia quello più naturale e primario per tutti noi, tanto da diventare una pietra di paragone per altri comportamenti sociali, e istituisce un preciso collegamento tra cibo e linguaggio. Non a torto.
Si può disegnare una vera mappa della storia d’Italia attraverso i termini con cui si designano gli alimenti: praticamente ogni regione, o meglio ogni cittadina e contrada, ha una sua terminologia in fatto di cibo. Come potrebbe immaginare uno straniero che parole come reale, matamà, polso, costa di sottospalla, locena, rosciale, spinello si riferiscano allo stesso taglio di carne bovina? O che per ordinare gli stessi dolcetti fritti tipici di carnevale, a seconda dei posti, deve usare termini diversi come chiacchiere, bugie, frappe, cioffe, sfrappole, crostoli, galani e altro ancora?
Questa grande varietà di definizioni racconta una storia secolare di tradizioni diverse che si sono conservate gelosamente (e golosamente) nella cucina italiana, rendendola incredibilmente varia e ricca. Stesso discorso vale per gli attrezzi usati per preparare il cibo, di cui in genere si parla meno. Anche loro mostrano i differenti influssi culturali che hanno contraddistinto lo sviluppo del saper fare in cucina, mantenendone una precisa traccia nel nome. L’infografica ci racconta la loro origine: la maggioranza dei termini ha una derivazione latina, non dal latino classico, però, bensì da quello volgare e parlato, con termini variamente trasformati a seconda dei dialetti. E ritroviamo altre tradizioni: è presente l’influenza longobarda, soprattutto in Piemonte e Lombardia (ad esempio, in scumaròla e le sue varianti per schiumarola o scossàl, scusàl, scürsàl per grembiule).
Varie sono poi le derivazioni dal francese, come bàscüla o bascùie per bilancia e tirabusòn, tirabusciò e simili per cavatappi, anche se questo non ci sorprende, considerato che la cucina francese è stata per secoli il punto di riferimento internazionale dell’alta gastronomia. Forse ci meraviglia di più che siano ancora in uso tanti termini dialettali così diversi, e non abbia preso piede maggiormente l’italiano ufficiale. Ma questo fa parte della storia d’Italia. Come sappiamo, ciò rimanda alla famosa disputa sulla questione della lingua, esplosa durante l’Umanesimo cinquecentesco, quando l’Italia era un Paese fiorentissimo in fatto di cultura, arte e commerci ma spezzettato in vari Stati. Quale lingua unitaria si poteva adottare? Prevalse la tesi del letterato Pietro Bembo a favore del toscano letterario trecentesco, cioè della lingua creata sulla base dei capolavori di Francesco Petrarca, Giovanni Boccaccio e, in parte, Dante. La scelta andò a favore di una lingua aulica e di grande prestigio, da imporre a livello internazionale (Dante aveva utilizzato molti termini bassi e popolari, per questo andava un po’ meno bene come modello). In una lingua del genere, ovviamente, non c’era posto per gli umili utensili di cucina, ai quali rimase attaccato il nome popolare e dialettale.
Nel tempo le ricette locali, gli ingredienti tipici e i piatti per le occasioni speciali, insieme alle relative attrezzature di cucina, divennero un patrimonio di conoscenze e tradizioni del luogo che contribuì a consolidare una specifica identità. Tutti insieme, questi patrimoni andranno a costituire la «cucina italiana», composta da una moltitudine di diverse tradizioni e ben lontana dall’essere la cucina rappresentativa di una città o di una corte. Non stupisce quindi l’attaccamento anche ai termini linguistici che designano gli strumenti del cibo.
C’è un’altra cosa che colpisce parlando di utensili da cucina, e cioè il loro grande assortimento. Alcuni provengono dall’alta cucina francese, come dimostra il loro nome; altri entrarono in uso presso i cuochi a servizio nelle case altolocate o nei successivi restaurant. Ma molti erano presenti già nelle case contadine, dove ritroviamo un’inaspettata varietà di strumenti: poveri ma specializzati e funzionali. Non c’era un solo arnese per maneggiare il cibo in cottura, ma mestoli per rigirare, mestoli per minestre e zuppe, schiumarole bucate per i fritti, spiedi, forchettoni. Lo stesso vale per i recipienti di cottura: pentole o casseruole per liquidi e pasta, padelle per fritti e verdure, teglie o tegami per sughi e condimenti, «testi» (pentole dai bordi molto bassi con coperchio per focacce e simili), padelle forate per le caldarroste. Spesso attrezzature fatte in casa. E poi c’erano ferri per la pasta, stampi, palette e strumenti in legno, scolapasta, setacci, mortai con pestelli, coltelli, taglieri con mezzaluna, macinacaffè a manovella, pinze, attizzatoi e strumenti per il camino. Ogni operazione aveva il suo attrezzo specifico.
Persino la preparazione della polenta, forse il piatto più povero, aveva i suoi utensili dedicati: andava cotta in un paiolo di rame appeso sul fuoco (i contadini più poveri lo noleggiavano dal calderaio), rigirata per un’ora con mestoli e fruste di legno, versata su un tagliere di legno rotondo e infine tagliata con un filo di cotone, per preservarne la grana spessa. Guai a usare altri recipienti o mestoli di metallo o tagliarla con il coltello: si sarebbe rovinata. Come avveniva per i lavori nei campi, dove ogni operazione necessitava del giusto attrezzo, così era anche nella cucina contadina: gli attrezzi, con i loro usi e i loro nomi, raccontano una storia non di mera sopravvivenza ma di un’arte tramandata nel tempo.