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 2024  febbraio 07 Mercoledì calendario

Viaggio nella Olivetti Valley

Viene da immaginare che cos’era questa strada quando, dietro l’interminabile muraglia in vetrocemento, operai, impiegati, dirigenti, ingegneri, progettisti, programmatori continuavano a lavorare, a progettare, a programmare, a sperimentare. Le Corbusier definì via Jervis, con la sua lieve curvatura, la più bella strada del mondo. Era un’esagerazione ma neanche tanto: sarebbe bastato limitare l’affermazione alle strade della modernità industriale. La più bella strada della modernità industriale, tutta vetri che riflettono altri vetri, che riflettono l’azzurro quando il cielo è azzurro come oggi. Non ci sarebbe niente di triste, in tutto questo, se non ci fosse il rimpianto diffuso di quel che potevano diventare Ivrea e l’Italia se. Primo: se Adriano Olivetti non fosse morto, a 59 anni, per una trombosi che lo colpì su un treno, in territorio svizzero... Secondo: se gli americani, in pieno clima da guerra fredda, non l’avessero spiato e boicottato temendo il «comunista»... Terzo: se la politica italiana avesse sostenuto l’Olivetti come ha sempre sostenuto la Fiat... Quarto: se dopo Adriano qualcuno avesse creduto davvero nell’elettronica... Le ipotesi nella vox populi si sprecano, comprese quelle dei complottisti sicuri che la morte di Olivetti non fu accidentale.
«Un’occasione perduta», è il pensiero ricorrente che affiora sulle labbra dell’eporediese anziano o di mezza età. «Questo era un paradiso in terra», dice il barista sessantenne che ha avuto due genitori olivettiani e ricorda i pullman che andavano e venivano in città dai paesi vicini portando fiumi di lavoratori dalle campagne. «Adriano è stato una leggenda, teneva al benessere delle persone». Il tassista che per una vita ha lavorato in una fonderia di alluminio, lungo via Jervis parla dei «resti di quello che fu» ed esclama con orgoglio: «Cos’era quest’azienda! Ti dava tutto: le case, le scuole, gli asili, i parchi, le mense, le vacanze, le colonie... E i primi a fare i computer nel mondo siamo stati noi a Ivrea, ehhh! Io ho conosciuto personalmente l’ingegner Perotto».
L’ingegner Pier Giorgio Perotto è morto nel 2002. Guidava il team ristrettissimo di progettisti che nel 1964 inventò la cosiddetta (femminile, sic!) Programma 101 o P 101, il primo computer da tavolo, un successo mondiale nonostante le diffidenze e le resistenze interne («è una macchina che il mercato non vuole», dissero). Tra i quattro c’era anche il giovanissimo Gastone Garziera da Sandrigo, provincia di Vicenza, oggi ottantunenne, da perito meccanico assurto a direttore della ricerca e sviluppo: «Ivrea – dice – poteva diventare la Silicon Valley». Con la sua lunga barba bianca tipo Santa Claus, Garziera è seduto qui intorno a un tavolo di Villa Casana, e racconta che quando l’équipe di Perotto spiegò come funzionava la P 101 a Natale Capellaro, il capo dei capi, il dio degli ingegneri, l’inventore della celebre Divisumma, la calcolatrice elettromeccanica automatica, dopo un lungo silenzio si sentì dire: «L’era del calcolo meccanico termina qui, oggi se ne apre una nuova». Cinque anni dopo, quella macchina sarebbe finita sull’Apollo 11. Di fronte a Garziera, c’è Bruno Lamborghini, che vanta un’infinità di qualifiche, da chief economist a consigliere di amministrazione, a presidente per 15 anni dell’Archivio Storico Olivetti.
L’Archivio ha sede qui, in questa villa nobiliare primonovecentesca che domina la città dall’alto: acquistata nel 1952, fu l’ultima sede presidenziale di Adriano e poi scuola dell’infanzia, con i suoi 40 mila metri quadrati di parco. Visitando gli edifici, uffici, fabbriche e case private olivettiane, diventa chiaro che nessun dettaglio è casuale: non solo il disegno della Lettera 22, ma neanche una sedia, un tavolo, una lampada, un quadro, un corrimano, nulla è lì per caso e nulla è fatto a caso (gli appendiabiti sono firmati da Ettore Sottsass, così come gli specchi «ultrafragola» di certi bagni femminili). «Ad Adriano non piaceva il disordine», sorride Gaetano Di Tondo, «per questo era un patito dell’architettura e della sistemazione urbanistica». Di Tondo è capo delle relazioni esterne e presiede l’Associazione Archivio, il cui motto è: «Noi facciamo gli archivisti, quindi lavoriamo per il futuro». È qui anche lui, accanto all’archivista Enrico Bandiera. Ovviamente in queste sale ci sarebbe da perdere la testa, e qualche ricercatore la perde volentieri arrivando non solo dall’Italia per frugare tra i documenti, i progetti, i manifesti pubblicitari, i periodici, i libri, i filmati, i fondi fotografici. Ci ha perso la testa anche il quarantenne Andrea Mazzola, di Ivrea, che non ha nostalgia di nulla ma impazzisce per la grafica Olivetti (ha una collezione di 70 macchine da scrivere): con quell’ammirazione, ha guadagnato il merchandising ufficiale e dunque può produrre oggetti (tazze, felpe, t-shirt, zaini...) con stampate le versioni storiche del logo aziendale. Il suo negozio, nel centro antico del paese, si chiama Spritz e il concetto è: uscire dall’idea museale.
È un tira-e-molla continuo, intorno a questo tavolo, tra memoria e sguardo al futuro. La frase più bella la dice Garziera: «Per tanti anni mi sono divertito, e mi pagavano anche!». Lamborghini parla di semi gettati ovunque dalla lungimiranza di Adriano e non solo sua (dopo Adriano venne il figlio Roberto). Semi materiali (gli edifici disegnati dai migliori architetti, l’edilizia sociale eccetera) e semi immateriali: le idee, ma anche le radici che hanno fatto fiorire nel territorio tante aziende informatiche, piccole figlie ideali o nipoti di quella grande madre.

La parola chiave resta «comunità», quella che dal 1946 diede nome alle famose Edizioni olivettiane e a una rivista che fece epoca. Non era possibile pensare al lavoro senza condivisione, senza cultura e senza svago: da qui i servizi sociali, gli spazi del tempo libero (bocce, tennis, carte eccetera). E le biblioteche con libri e giornali a disposizione di tutti, persino in mensa, per le pause pranzo. Lamborghini è sicuro: «Il modello olivettiano, dove le persone sono al centro, sta riprendendo vita. Odio l’espressione “capitale umano”: parlo di individui con le loro singole competenze e attitudini. Diverse aziende stanno applicando quell’idea... è una speranza e una realtà». E prosegue: «Le aziende sono creature viventi, hanno una vita e una morte». Ricorda che Carlo De Benedetti entrò nel 1978, trovando un’azienda in crisi ma tecnologicamente all’avanguardia, la risanò e fino all’87 l’Olivetti trionfava ovunque. Il pensiero va all’M 24, il personal computer che nel 1984 ottenne un successo clamoroso da fare concorrenza all’Ibm. «A un certo punto l’Olivetti era la prima azienda europea di pc e la seconda al mondo dopo Ibm. Il declino è arrivato con la riduzione dei prezzi degli asiatici, che ormai ci surclassavano». Lamborghini insiste sull’eredità ideale, sui concetti di formazione e di selezione del personale che doveva sposare la cultura tecnica con quella economica e con quella umanistica. Salta fuori il ricordo del «grande manager» e direttore del personale che fu lo scrittore Paolo Volponi. Ma tra i letterati chiamati a Ivrea si potrebbero aggiungere Giorgio Soavi, Alfonso Gatto, Geno Pampaloni, Ottiero Ottieri, Franco Fortini, Giovanni Giudici, Leonardo Sinisgalli, Furio Colombo e altri. Pura energia creativa.
L’energia qui si è ricaricata nel 2018, quando la città industriale è diventata patrimonio dell’Unesco. Dice Di Tondo, che è stato scelto dal gruppo Tim che ha incorporato Olivetti quale «polo digitale»: «Per portare avanti questa storia il passato serve e dà idee e suggestioni, ma bisogna andare oltre sapendo che l’Olivetti è un’azienda che vive ancora di vita propria». Ceduti a Buffetti i registratori di cassa, la vita propria è l’impegno sulle soluzioni cosiddette IoT (Internet of Things, ovvero l’internet degli oggetti) e sull’analisi dei Big Data con un totale di circa 400 dipendenti (un centinaio a Ivrea). Roba difficile da spiegare in due parole, ma su cui gli esperti puntano a occhi chiusi. Più semplice valorizzare la memoria: le collezioni d’arte Olivetti sono state esposte al pubblico in sei mostre tematiche nel Museo Civico Garda.
La città industriale per fortuna è archeologia solo in parte. Nel freddo di questi giorni, torniamo su via Jervis, che prende il nome da Guglielmo Jervis, ingegnere valdese, direttore della scuola olivettiana, fucilato a Villar Pellice dai fascisti nel 1944. La visita, organizzata da Spazi-O, parte dalla facciata della Fabbrica dei Mattoni Rossi, il primo nucleo, voluto nel 1898 dal capostipite Camillo e oggi inaccessibile. Poi c’è la sfilza degli ampliamenti in vetrocemento: 1, 2, 3, 4, costruiti fino al 1958 per contenere falegnameria, fonderia, laboratori meccanici, le cosiddette Officine Ico, acronimo di Ingegner Camillo Olivetti ripreso dal gruppo Icona che oggi in buona parte le detiene. Edifici progettati a partire dal 1934 dalla premiata ditta Luigi Figini-Gino Pollini. Non tutto è oggi occupato: gli spazi sfitti sono ancora tanti e nel quadrangolare Salone dei 2000, in ristrutturazione, la statua di Camillo svetta sul fondo, solitaria. Gianmaria Baro, guida esperta, elenca le startup tecnologiche che si sono sistemate qui, oltre alle palestre, a una radio, ai caffè, alla Direzione Benessere. Senza dimenticare le aule del polo infermieristico, l’Arpa e l’Agenzia delle Entrate. Tutt’altro che gusci vuoti, come invece sono lo splendido Palazzo Uffici, con la sua scala plateale, opera di Marcello Nizzoli, che Adriano non arrivò a vedere. E poi il Palazzo Uffici 2, al suo fianco. Due colossi acquisiti in ottobre da un gruppo italiano per risistemarlo e farne un polo di formazione e forse di sanità.
Fatto sta che oggi la Ivrea olivettiana è la Firenze rinascimentale della modernità: testimonianza di un’epoca di grande civiltà e cultura. Inevitabile l’orgoglio e il rimpianto. Adriano Olivetti come Lorenzo de’ Medici: il mecenate che al di là dei probabili errori di governo o di gestione ha lasciato ai posteri un’eredità di armonia e di bellezza sfolgorante. Con un sovrappiù di utopia sociale. Nella visionarietà urbanistica è compreso l’anfiteatro interrato con un’ottantina di appartamenti uso foresteria per i dirigenti, costruito ai margini del parco di Villa Casana: è detto volgarmente Talponia, abbastanza nascosto per assicurare sufficiente riservatezza, nel recente passato, a un discreto giro di escort. Bisogna spostarsi a Castellamonte, il quartiere residenziale (le case per famiglie numerose sono su tre piani), per apprezzare al meglio le linee razionaliste del sodalizio Figini-Pollini, poi la visione di Nizzoli-Oliveri e infine il genio di Emilio A. Tarpino.

Cristina Ghiringhello è nata e cresciuta a Ivrea, formazione economica tra Padova e Milano, direttrice di Confindustria Canavese fino a tre mesi fa, impegnata oggi soprattutto nelle scuole di formazione, sostenitrice della «leadership gentile», prolungamento del pensiero comunitario. La gentilezza non è di facciata, a giudicare dall’accoglienza nella casa (olivettiana), dove abita con il marito e due figli dal 2019. «Su Olivetti – dice – il mondo è spaccato. Nelle generazioni più anziane c’è un pensiero nostalgico, quasi l’attesa di un nuovo eroe che torni a sollevare le sorti del territorio. Invece i nati, come me, negli anni Settanta la vivono con più distacco pur avendone beneficiato». Beneficiato in parte, visto che i suoi genitori, impiegati in azienda, hanno vissuto il licenziamento della crisi anni Novanta. «Qui il lavoro c’è ancora – dice Ghiringhello – magari più parcellizzato di quando l’Olivetti nel mondo aveva 70 mila dipendenti, ma oggi ci sono nel territorio più di 400 aziende informatiche, alcune con mille dipendenti, molte con due o tre...».
La casa in cui ci troviamo, disegnata da Nizzoli-Oliveri alla fine degli anni Quaranta, è una delle sei progettate e proposte ai dirigenti dall’Ufficio Case: due piani comprendenti la camera, con bagno, della governante. Ghiringhello fa notare i dettagli: nei pavimenti, negli infissi, nei mancorrenti, negli scalini, nell’alternanza tra intonaco, legno e pietre che coprono l’esterno e in parte si ritrovano nella sala. Una semplicità studiatissima e quasi maniacale. Ora i vincoli sono tre: del Comune, della Soprintendenza e dell’Unesco. Il rischio è di vivere in un museo, ma non per Ghiringhello. Qui tutto ha un’impronta di ordine e pulizia come volle Adriano: la pietra di Luserna è inconfondibile, la si trova ovunque, anche, poco sopra, nell’Asilo e nell’Aula Giardino che il comune sta ristrutturando.

Davanti alla Portineria del Pino, sempre su via Jervis, ci aspetta Enrico Capellaro per accompagnarci a visitare la chiesa quattrocentesca di San Bernardino, situata nel mezzo della zona industriale, appena a fianco della mensa disegnata da Ignazio Gardella e di fronte a Casa Blu, frutto della fantasia di un altro genio, l’architetto napoletano Eduardo Vittoria, che con le piastrelle azzurre portò nel cuore dell’industria un po’ del suo mare: era dal 1955 la sede (bellissima, su quattro ali) del Centro Studi ed Esperienze. Entrare oggi nell’atrio, guardare dal basso il vano delle scale per respirarne tutto il fascino moderno.
Capellaro («ahimè, nulla a che fare con Natale») è un uomo piccolo ma solido di 86 anni che racconta un episodio del 1954: «Mi trovavo in portineria dell’Officina Z CA, si apre l’ascensore, e compare Adriano, apro la porta d’entrata per farlo uscire, mi toglie letteralmente la mano dalla maniglia, regge lui la porta per cedermi il passo, e di fronte alla mia esitazione mi sollecita a passare prima di lui. Era il rispetto che aveva per chi, come me, indossava la tuta». Lacrime agli occhi. Ricorda la folla al funerale, lo choc, la sospensione del Carnevale. Lo stesso Carnevale che oggi colora di stendardi la città, in attesa del lancio delle arance dai carri che verrà domenica prossima, 11 febbraio. San Bernardino, con il convento dei francescani, fu acquisita da Camillo e ora appartiene al Fai. Capellaro, che è arrivato all’Olivetti come operaio per diventare manager della pianificazione, ha studiato ogni particolare del fantastico tramezzo con la Vita di Cristo affrescata da Giovanni Martino Spanzotti, il pittore casalese a cui Giovanni Testori dedicò «pagine dolcissime». Capellaro ci mette tutto l’amore (per Spanzotti e per l’Olivetti) nel racconto. Il racconto prosegue in mensa, dove si trova la sala delle Spille d’Oro, l’associazione, istituita nel 1946, che premiava i lavoratori che raggiungevano i 25 anni di fedeltà all’azienda. Flavio Serughetti, spilla d’oro molto attiva, invita a uscire dal mito: «Non dimentichiamo che la parabola Olivetti nel mondo ha toccato l’apice negli anni Ottanta». Sarà, ma girato l’angolo, sui muri che ormai appartengono ad altri, la gigantografia è quella di Adriano vestito di bianco.