La Lettura, 7 febbraio 2024
Aristotele, il più grande di tutti
Nel libro Sette brevi lezioni su Aristotele (Einaudi) John Sellars, docente all’University of London, sostiene che il pensatore greco è stato il filosofo più importante di sempre. Da qui siamo partiti per discuterne il rilievo e l’attualità. «Chi – si domanda Sellars – ha avuto un impatto maggiore sul nostro modo di vedere il mondo? Aristotele ha inventato la biologia, la logica, la politica, la critica letteraria... il nostro sapere è organizzato secondo categorie che ha stabilito lui, 2.500 anni fa».
In effetti, persino nell’errore Aristotele è stato il più importante. Ha sviluppato ragionamenti così impeccabili che per due millenni abbiamo guardato l’universo con le sue lenti. Mettendo la Terra al centro di tutto, dividendo l’universo tra un mondo sublunare (il nostro, imperfetto anche se non caotico) e quello oltre la Luna (perfetto ed eterno). Però era tutto sbagliato.
«Nel Medioevo si è diffusa un’immagine fuorviante di Aristotele: l’autorità somma, il filosofo infallibile, l’autore di un sistema perfetto, che non può essere messo in discussione».
Era «Il maestro di color che sanno», nella famosa definizione di Dante.
«Non è così. Aristotele è una mente aperta, curiosa; rifugge da ogni pretesa di sistematicità, non nutre nessuna velleità di onniscienza. Sa che una delle parole più diffuse nei suoi testi è “forse”? Ad Aristotele, come a tutti i veri grandi pensatori, interessano più le domande che le risposte. È sempre in cerca».
Già Francesco Petrarca distingueva tra i suoi falsi seguaci, gli aridi dottrinari di Oxford e Parigi, e il maestro di eloquenza, interessato dallo spettacolo vario dell’esistenza umana.
«È la stessa idea di Galileo Galilei. Ed è proprio a lui, l’anti-aristotelico per eccellenza, che dobbiamo la frase più illuminante: “Se Aristotile fusse all’età nostra muterebbe oppinione”. Il vero aristotelico non si concentra sulla lettera dei suoi testi, ma ne abbraccia lo spirito di ricerca, la passione della conoscenza».
Però molte sue teorie sono difficili da digerire per noi, oggi. Penso alla sua concezione della donna o alla famigerata difesa della schiavitù.
«Vero, anche se il ragionamento di Aristotele è un po’ più articolato di come si ripete. Il punto decisivo riguarda la presunta uguaglianza degli esseri umani. Siamo davvero tutti uguali, allo stesso livello? Per noi è fuori discussione, per lui molto meno. A risultare interessante, per noi, non è tanto stabilire chi abbia ragione, ma rispondere alla sua provocazione. Su quali basi, per quali ragioni nutriamo questa nostra convinzione sull’uguaglianza? È questo che si chiede a un filosofo: non che ci confermi nelle nostre idee (o pregiudizi), bensì che ci aiuti a riflettere sui nostri principi. Ed è proprio qui, dove ci appare più distante, che comprendiamo il vero Aristotele. Quello che conta, per lui, è l’osservazione spassionata, il tentativo di capire senza prese di posizioni preconcette. Aristotele rimane uno scienziato anche quando si addentra nei meandri del mondo umano».
A partire da un presupposto decisivo: la convinzione che la realtà abbia per così dire una sua razionalità intrinseca. Se le cose vanno in un certo modo ci deve essere una ragione. Il compito della filosofia è comprendere questa ragione. Inevitabilmente, questo porta a volte Aristotele su posizioni conservatrici, giustificatorie dell’esistente.
«Stiamo attenti, però, a che cosa intendiamo per conservatore. La lezione più importante di Aristotele è la fiducia nella ragione – la convinzione che la ragione sia l’unico strumento di cui disponiamo per organizzare le nostre vite. Vivere secondo ragione: ecco l’obiettivo più importante, tutt’altro che banale».
È una tesi radicale, se pensiamo al nostro mondo, dominato da passioni ed emozioni. Chissà che cosa penserebbe se capitasse tra di noi, magari nel bel mezzo di una elezione.
«Guarderebbe con sconcerto alle polarizzazioni dei nostri dibattiti, trovando una conferma della bontà della sua tesi forse più celebre e probabilmente fraintesa, quella del giusto mezzo. La virtù, il comportamento migliore, sta in mezzo ai due estremi, per eccesso e per difetto: ma non come semplice rinuncia a qualcosa, come se la virtù corrispondesse al buon senso di chi si contiene. È piuttosto la capacità di fare la cosa giusta al momento giusto. Servono esperienza, intuito, bisogna saper leggere le situazioni, dosare (ma non annullare) le emozioni».
Del resto, anche in politica la cosa più importante è guardare a quello che c’è in mezzo, favorendo lo sviluppo di una comunità quanto più possibile allo stesso livello, evitando gli estremi di una ricchezza e di una povertà eccessive. Non (o non soltanto) per motivi morali, ma perché questi eccessi alimentano passioni e frustrazioni, creando instabilità e insicurezza.
«Di nuovo, tesi apparentemente banali si rivelano radicali, se pensiamo a certe tendenze in atto nella nostra società, sempre più divisa tra multimilionari e indigenti».
Aristotele ha anche inventato la critica letteraria.
«Ancora una volta con un’ampiezza di sguardo rara. Sappiamo tutto o quasi della sua interpretazione della tragedia, ma Aristotele si è occupato anche della commedia».
Il famoso secondo libro della «Poetica», ormai perso: e in fondo il vero protagonista del «Nome della rosa» di Umberto Eco. Per secoli l’idea stessa che Aristotele si fosse occupato della commedia ha turbato le notti dei suoi fedeli più ottusi. Aristotele è un filosofo e i filosofi non possono ridere. Dunque, quel libro deve sparire. Ed è sparito.
«Ma è esattamente il contrario. I testi di Aristotele sono pieni di motti di spirito, di arguzie, di battute. Aristotele è uno che ha saputo godersi la vita».
Pare che amasse anche vestirsi alla moda...
«Di sicuro non insegnava camminando, come si ripete, fraintendendo il significato di “Peripato”, che in greco significa “colonnato”. Ce ne era uno anche nella sua scuola, il Liceo, e da lì viene il nome di “peripatetici”. Ma i suoi scritti contengono continui riferimenti a schemi o diagrammi: chiaramente, quando insegnava usava delle lavagne, in una classe».
La sua opera più riuscita?
«Per me l’Etica nicomachea, con la sua indagine della felicità, che ancora una volta sfida le nostre convinzioni».
Noi siamo ossessionati dalla felicità intesa come un momento di intensa emozione. Ma il problema è quello della vita buona. È possibile costruire una vita completa, soddisfatta, in cui realizziamo i nostri progetti e noi stessi?
«Per noi è tutta una questione di sentimenti, emozioni. La felicità dipende da come ci sentiamo, da quello che proviamo – a dominare è la nostra soggettività. Per Aristotele è vero il contrario. La domanda è: che cosa rende una vita oggettivamente buona?».
Non basta insomma seguire i desideri; prima di tutto si tratta di capire quali sono i desideri che meritano davvero di essere realizzati.
«Una vita felice, una vita buona è quella di chi realizza il proprio talento di essere umano. Mi viene in mente madre Teresa di Calcutta. Sicuramente ha passato momenti difficili, dolorosi. Ma la sua è oggettivamente una vita buona, in cui ha realizzato qualcosa. Una vita umana».
Il problema è capire chi siamo, cosa significa essere umani.
«Ed è una domanda più impegnativa di quanto si pensi, perché siamo esseri complessi. Viviamo insieme, abbiamo bisogno gli uni degli altri – siamo animali politici, diceva appunto Aristotele. Ma allo stesso tempo, e ancora di più, siamo gli animali razionali, dotati di logos, animati dal desiderio di conoscere, capire, dare senso a noi e a quello che ci circonda. Una vita realizzata è una vita consapevole, in cui siamo trasparenti a noi stessi nelle nostre scelte e azioni. E per questo completi».
Un progetto impegnativo...
«La filosofia non serve a raccontare storie edificanti, come nei manuali di self-help. Può soltanto spronare, costringere a riflettere e a interrogarsi su cosa siano il bene e il male, la giustizia e l’ingiustizia, a pensare a come si vuole vivere. È un invito appassionato a usare la nostra ragione. Anche quando è faticoso, o quando sembra inutile. Del resto, rinunciando all’uso della nostra intelligenza, non rischieremmo di rinunciare alla nostra umanità? La sfida di Aristotele è tutta qui».